Frank C. Papé, mistero ed ironia

Chi osa prendersi gioco del solenne?

copertinadi Giorgio Perlini

Nel dissertare di autori misconosciuti c’è un gusto che assomiglia all’orgoglio dell’esploratore dopo la sorpresa di una scoperta improvvisa. L’archeologia non fa parte del mio background esperienziale ma più d’una volta la professione mi ha condotto su itinerari vagamente impervi, durante i quali mi sono imbattuto in oggetti non previsti. E’ così che riportai alla luce, durante una campagna di schedatura per la sovrintendenza alla belle arti, il gatto mummificato del gabinetto scientifico del Seminario Arcivescovile di Ravenna, dove trovai pure, ben celato all’interno dell’altare del piano superiore, il cranio di san Crispino. E non mi soffermerò a narrare dei tesori – per me lo erano – scovati con l’amico di sempre Francesco durante le esplorazioni fanciullesche di certi siti lasciati all’abbandono e che oggi, se fossero ancora in piedi, potrebbero figurare come meravigliosi esempi di archeologia industriale. Ora che ho cinquant’anni compiuti, pur non pensando d’essere abbastanza vecchio per continuare a visitare posti simili, mi viene più spontanea l’indagine dei mondi sommersi telematici, che consentono immersioni anche solo in pausa pranzo e non richiedono preparativi da sopravvivenza. E non finiscono mai di offrire pezzi rari.

L’illustratore inglese Frank Cheyne Papé (nato a Camberwell 1878 e morto a Bedford 1972) è per l’appunto il frutto di una di queste ricerche effettuate on-line anni fa ed originariamente indirizzate verso altre mete. Il libro che prenderò in esame in questa sede è quello con cui il disegnatore mi si presentò la prima volta, The Revolt of the Angels di Anatole France, a partire da una tavola splendida con i cavalieri dell’Apocalisse, tanto magnetica che capita di reperire il volume in questione privo di quell’illustrazione poiché il precedente proprietario ha ben pensato di tagliarla via per incorniciarla (la qual cosa testimonierebbe pure buon gusto se non fosse per la barbarie perpetrata ai danni del libro). In grado di trasmigrare il gusto simbolista nel contesto ironico degli scritti di France e traducendo il tutto con un segno ad inchiostro dettagliato come quello d’un disegnatore di fumetti, Papé con una sola immagine riuscì a farsi spazio nel mio cuore ingolfato da amori giovanili strabordanti e nuove passioni più meditate e consapevoli. In quella tavola mi sembrò di vedere i grandi enigmi di Franz Von Stuck ed Arnold Boecklin tradotti a china per un ignoto fruitore del futuro, fanatico di Poe ma anche lettore di Metal Hurlant, quale io ero stato in gioventù. Era come se quella immagine fosse stata fatta per me, ma né io e né l’autore lo sapevamo. Viaggiando nel tempo per tanti anni l’immagine spedita giungeva finalmente a destinazione. Non saprei interpretare fino in fondo le figure di quel disegno: i quattro cavalieri dell’Apocalisse sembrano aumentare di numero, sfumano uno nell’altro e si scambiano i ruoli. La peste, tutt’altro che corrosione del morbo, è una bella ragazza ma è avvolta dalle spire d’un rettile che sembra un budello, più disgusto che veleno, e sta per soggiacere alle incomprensibili lusinghe del mostro. Ma allora è la peste o piuttosto la lussuria? Sulla sinistra la fame, questa sì inequivocabile, sdoppiata nella prima figura di un corpo secco come uno spaventapasseri – che annaspa implorante verso la misera esca – e nella seconda figura del mostro rapace derivato dalla pittura di Grunewald (Le tentazioni di Sant’Antonio). Insomma la fame come effetto e come causa personificata. Della guerra si mostrano tre facce, a partire sempre dalle conseguenze, drammaticamente sdraiate a terra, per proseguire con la figura della furia, natura bestiale, inevitabile mutazione dell’uomo in belva armata ed ispirata dalla terza entità, squadrata ad indicare un rivestimento metallico, più carro armato che corazza, con lo scudiscio in un pugno e l’ambìto alloro della vittoria nell’altro. E le ali piumate, caratteristiche della Nike, sono qui ali membranose da volo notturno di pipistrello. “War pestilence and famine entered circle” è riportato sotto al disegno (“and Death, tearing the violin from the fiddler’s hands, led the dance” è il seguito della frase di France stampata nella pagina successiva) ed in effetti le figure sono disposte circolarmente. Al di sopra di tutto la Morte, ammantata ed intenta a suonare un violino corredato di svolazzanti nastri neri. La materia delle ossa è disegnata con un arabesco di segni che rende bene l’invecchiamento, segni lasciati da un tempo infinito che scava teschio e falangi come l’acqua erode la pietra. Il volto della Morte potrebbe essere fatto della roccia del Gran Canyon.

Quella tavola mi piacque così tanto perché la trovai audace, trattava le tematiche solenni del Simbolismo con stile ironico ma senza sminuirne la portata. Le motivazioni non sembravano essere riposte in una sfiducia causata dalla solita crisi dei valori, da un montare d’ateismo, dal riportare tutto sul piano materialista, bensì nel contribuire con un certo affetto alla cultura spirituale decadentista col valore aggiunto del sarcasmo. Credo che questo modus si riscontri anche nelle altre tavole, a partire dai bellissimi risguardi: non è meravigliosamente pomposo il modo di trattare la battaglia degli angeli che portano lo spadone al fianco come San Michele ma indossano anche le maschere antigas? E le nuvole, calligrafate all’inverosimile? E vogliamo parlare del frontespizio con quel titolo dai caratteri elettro-futuristi a contrasto con quelli pseudo-gotici con cui è riportato il nome dell’illustratore? Nello scontro tra quei due font così diversi c’è il dissidio interiore di chi conosce bene l’arte d’avanguardia ma ha deciso che per essere illustratori è necessario seguire, almeno nella forma, la tradizione. Si osservi a proposito il disegno con l’anziana coppia davanti al quadro espressionista; si intuisce da quanto vi si vede – e dalle poche lettere non occultate – che si tratta di un tema classico di derivazione evangelica “The prodigal son” (la cui versione più nota è quella di Rembrandt), eseguito alla maniera degli incisori del gruppo Die Brucke, come Schmidt-Rottluff. Al di là dell’immancabile ironia, qui espressa con la signora disegnata mentre si volta per distogliere lo sguardo dall’uomo nudo coprendosi con la falda del cappello (la cui piuma finisce così per censurare l’immagine all’intero pubblico dei lettori), una pensiero affiora: se la coppia è la metafora del pensiero borghese, magari un po’ stantio, quel figliolo ridotto in mezzo ai porci, seppur caparbiamente nuovo, non è forse il simbolo della deriva dell’arte? Scherza Papé, senza mancare di rispetto a nessuno. Non getta fango neanche sul tramontato e mai più proponibile politeismo, quando nella prima delle tavole fuori testo la figura cornuta di Pan fugge abbandonando un tempio in rovina; è scacciata/schiacciata dagli emblemi dei quattro evangelisti insolitamente agguerriti. Nella corsa è inseguito da serpenti volanti e perde il flauto. L’immagine non è solo una buffa rappresentazione del trionfo del Cristianesimo ma anche una altrettanto buffa, e dunque non definitiva, sconfitta del male, personificato dalla lussuriosa divinità pagana che ha fornito le caratteristiche per l’iconografia cristiana del diavolo. Se non ne siete convinti osservate l’ingrandimento dello sfondo del disegno: il movimento dell’aria è composta da una miriade di nere fiammelle con volto luciferino. In un’altra tavola il Dio-toro Istar incrocia le zampe a ridosso di un tempio come farebbe un ragazzo seduto su di un cornicione, mentre nella confusione generale del rincorrersi di divinità, dei putti si divertono ad improvvisare una corrida con Istar stesso. Stavolta sullo sfondo appaiono degli angeli eseguiti in negativo, quasi in filigrana (si veda ancora l’ingrandimento) un lavoro di bianco su grigio di incredibile raffinatezza. Quel cesello da orafo è riscontrabile in ogni tavola ed è il mezzo con cui si arriva al nero pieno attraverso tutti i grigi possibili; nel disegno intitolato “I sang to the shepherds and the nymphs of the birth of the world” le figure sono rese con neri nitidi in primo piano e si stemperano man mano che si allontanano (con evidenti richiami ad Apollo e Dafne di Bernini ed Amore e Psiche di Canova). La padronanza tecnica consente all’artista di differenziare i personaggi umani e gli ambienti terreni, ben marcati, da quelli ultraterreni, evanescenti (bellissimo il contrasto tra l’angelo diafano che si è infilato l’aureola nel polso ed i libri scurissimi che poggiano sulla sua testa). Altra costante è la presenza di un cartiglio, al di sotto di ogni tavola fuori testo, che dovrebbe avere la funzione di ricondurre il disegno ad una frase del testo e diventa di fatto un’ulteriore illustrazione, compendio di quella principale. C’è veramente da divertirsi nel vedere le operazioni – non tutte narrate nel testo – in cui sono intenti angeli molto umani, spesso accoppiati a donnine squisitamente art-decò, ancora vestite eppure dalle movenze erotiche, somiglianti a quelle che Renzo Ventura dipingeva negli stessi anni in Italia. Tecnicamente meno elaborati ma altrettanto affascinanti sono i disegni al tratto dei finalini: l’angelo col mal di pancia per aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza, il frate che sta per essere scaraventato dalla cornata del satiro sulla stufa-automa che fa gli sberleffi, e l’immagine di chiusura, realizzata come un quadro appeso con una corda che si intreccia a formare le parole “The End”: vi si vedono France e Papé che affrontano un tribunale stile inquisizione, l’uno maestoso ed imperturbabile e l’altro tremante che cerca riparo alle spalle del mentore. Ad attenderli vi sono una macchina della tortura ed un cappio.

The Revolt of the Angels non è che una delle opere di Anatole France che Papé illustrò negli anni Venti, e non necessariamente la meglio riuscita. La serie prese il via nel 1922 con At the sign of the reine Pedaque, a cui seguirono appunto The Revolt of the Angels nel 1924, Penguin Island nel 1925, Thais (1926), The Well of St.Clare (1928) ed infine Mother of Pearl nel 1929. Prima di questa serie Papé si era cimentato nel 1921 con Jurgen, di James Branch Cabell, in cui mise a punto quello stile ironico e raffinato che portò avanti con tutte le opere successive. Poiché proprio in quell’anno Anatole France conseguì il Nobel per la letteratura (dopo che i suoi romanzi erano stati banditi dalla Chiesa), immediatamente crebbe l’attenzione verso lo scrittore francese, e venne chiesto a Papé di impegnarsi nell’illustrazione di una serie parallela a quella già collaudata dei romanzi di Cabell, edita nella medesima veste tipografica. Senza l’incontro con questi due scrittori “alti” la carriera di Papé – che subì forti oscillazioni– non avrebbe raggiunto quel culmine artistico nei disegni in bianco e nero, evidentemente scaturiti dall’elaborazione del sarcasmo presente nei testi; tutte le illustrazioni di Papé sono di ottimo livello, ma la produzione precedente, orientata verso la fiaba e caratterizzata da delicatissimi acquerelli, si inserisce nell’ambito dei più celebri Rackham, Dulac e Robinson, senza rivelare l’originalità delle opere seguenti. L’incontro con France e Cabell diede a Papé la possibilità di sbrigliare una fantasia che superò perfino i confini del fiabesco per dirigersi paradossalmente verso tematiche adulte; Papé trattò il sovrannaturale, le religioni, il rapporto tra Vita e Morte, i misteri relativi all’innamoramento, i capricci di Eros, l’assurdo della guerra, le difficoltà dell’arte contemporanea. Lo fece distinguendosi nel segno, morbido ma anche pungente e nello spirito, giocoso ma ancora pieno di enigmi.

The Revolt of the Angels by Anatole France, translated by Mrs. Wilfrid Jackson with illustrations and decorations by Frank C. Papé. London: Jhon Lane The Bodley Head Limited. New York: Dodd, Mead and Company, 1924 (first illustrated edition), cartonato nero in quarto, illustrazioni a tutta pagina riprodotte in photogravure e finalini al tratto.




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