Giambattista Galizzi ed il grottesco moraleggiante

I Sette Peccati Capitali – un’opera dimenticata

00coverdi Giorgio Perlini

I libri illustrati da Giambattista Galizzi sono molti, noti e frequentemente riediti; I promessi sposi (1923), Il Vangelo (1932), Pinocchio (1942), La Divina Commedia (1943), L’Orlando furioso (1945), La Bibbia (1954). Testi impegnativi per un illustratore, da disegnare armati di pazienza, costanza e solidità artistica. Ma sfuggono tra le maglie delle catalogazioni opere rese invisibili perché pubblicate solo all’estero, come The life & death of sir John Fastaff (1923), oppure perché orfane di firme illustri, come Il Nuovo Paradiso, un bel catechismo riconducibile agli Anni Trenta in cui il disegnatore non è stato accreditato, e soprattutto la cartella I Sette Peccati Capitali, misconosciuto ed introvabile capolavoro. Nell’arco di una trentina d’anni di ricerche mi sono imbattuto due volte nel portfolio; la prima è avvenuta on-line, ad un’asta che ovviamente ho perso per mancanza di denaro disponibile, la seconda al mercatino dell’antiquariato di Medicina, ad un prezzo piuttosto basso, tanto che non ho neanche pensato di contrattare. E l’opera è così bella che varrebbe in realtà qualunque cifra. Si presenta come una carpetta beige in folio, contenente sette tavole stampate a colori ed incollate su carta a mano delle Cartiere Fabriano, il tutto legato da un laccetto marrone con la consueta cura delle Edizioni Bolis di Bergamo. In copertina lo sberleffo di un personaggio demoniaco chiomato di serpenti pone le mani adunche davanti al volto, componendo con le dita il numero sette. La figura è compressa all’interno di una monofora a sesto acuto: la presenza maligna è attiva ovunque, anche nelle architetture religiose. Quel demone ammiccante racchiude l’intera poetica dell’artista. Il linguaggio muto delle sue mani e le spire delle serpi-capelli che si dispongono a forma di “S” alludendo a Satana sono intrisi di Simbolismo, sembrano spiegare ma il senso di mistero permane.

Bisogna sapere allora che Galizzi (Bergamo 1882-1963), artista poliedrico, abile nella scultura come nell’ebanisteria e pittore di opere religiose, sia su tela che su muro, aveva ereditato il mestiere e la passione dal padre. E quando si fa pittura sacra, quella vera, si va a cercare l’anima dentro ai corpi. Si vuole scandagliare il profondo del pubblico, parlare al suo spirito. Affinché ciò sia possibile è necessario calarsi dentro alla realtà minima, imparare a conoscere le cose, anche quelle apparentemente insignificanti, rendere la matita strumento di indagine dettagliata. A forza di operare così si riscontrerà una spiritualità in ogni manifestazione del mondo. Il non fermarsi sulla superficie conduce l’artista alla trasformazione della stessa in modo fantasioso. Vi è in Galizzi una caparbietà nell’individuazione dell’oscuro e del grottesco che non si accontenta di immediate ancorché impegnative sintonie con Dante e Collodi ma si spinge fin nelle opere manzoniane, a scovare spunti nelle righe sulle quali il lettore passa distratto e che altri illustratori non avrebbero mai preso in considerazione; nella sua interpretazione dei Promessi Sposi compaiono tavole a colori e testatine monocromatiche che, se ne ignorassimo la destinazione, sarebbe impossibile ricondurre ad un romanzo storico. La critica dell’epoca riscontrò pressoché all’unisono la capacità dell’artista di giungere alla bellezza nonostante certe asperità del disegno scambiate per imbastardimento del classicismo con sensibilità popolare. A me sembra invece che si tratti di una scelta ben ponderata, atta proprio a raggiungere vette liriche attraversando forme taglienti e masse pesanti, lo spirito che convive con la materia.

La serie dei vizi si apre con la Superbia – e anche la scelta dell’ordine è studiata e simbolica- a mo’ di spaventapasseri impettito e gonfiato dall’aria, involucro con cuore di paglia ma pansé variopinta, e testa vuota ma cappello dalla tesa impennata. A guardia di cosa poi? Dell’unico terreno pietroso mentre oltre cresce grano a perdita d’occhio. I versi che accompagnano l’immagine (e tutte le altre) sono composti dall’avvocato poeta Luigi Medici e non cedono mai al didascalico: “te beato, superbo, che col vento / da te stesso ti erigi il monumento”. Siano stati scritti prima o dopo l’esecuzione delle illustrazioni trovano ottima sintonia con esse. Sarebbe interessante conoscere la genesi del tutto. Io sono del parere che l’idea, proprio perché perfettamente consona all’espressione del deforme misterioso, sia un parto dell’artista in un’epoca, verosimilmente gli anni Trenta, in cui egli era già affermato nel bergamasco ed il suo sodalizio con l’editore Bolis pure consolidato. Non compare alcuna presentazione, né abbiamo informazioni sul numero di copie stampate – sicuramente poche data la scelta della carta pregiata – e sulla loro destinazione, non necessariamente ristretta alla gerarchia religiosa lombarda poiché l’intento morale sembrerebbe riportare l’operazione anche in campo laico.

Lo scarto tra la superbia e gli altri vizi capitali avviene con il passaggio dall’oggetto inanimato all’aspetto animalesco. L’avarizia è un avvoltoio dall’aria sospettosa, ingobbito ad occultare gioielli dentro ai cassetti d’un comò in un androne in cui il buio e la polvere rendono invisibile ciò potrebbe essere bello e godibile, come dipinti incorniciati, carpette di disegni, mappamondi antichi. Palandrana e berretto del protagonista ricordano le illustrazioni di Ebenezer Scrooge di Arthur Rackham ma l’invenzione di quelle mani-artigli, di quell’abito le cui lacerazioni diventano piume e sopratutto di quel naso-becco, è impressionante. (Altrettanto terribile suona la rima: “covalo, avaro, nel tuo scrigno il morto / nascerà un Creso; ma sarà un… aborto”). Galizzi bestializza i peccati ma umanizza gli animali, creando ibridi mostruosi. Perché in effetti i peccati appartengono solo al genere umano e gli animali, che non hanno colpe, vengono usati per simbologie stabilite dalle tradizioni.

Per la lussuria troviamo due volpi (o lupi, dei quali si sa che non perdono il vizio); il maschio, già piuttosto in là con gli anni, si reca in visita alla femmina portandole della cacciagione a guisa di omaggio floreale. La femmina in poltrona si atteggia con consumate pose aristocratiche di falso pudore, e la calza scura, la scarpa col tacco, la sigaretta tradiscono la professione. Sul tavolino vi è anche un vasetto che forse allude alle droghe. La volpe è da sempre considerata furba ed associata all’inganno, in ambito cristiano spesso vicina al demonio in quanto ladra, vendicativa, maliziosa. Più ermetico resta il significato della cornice vuota, verosimilmente uno specchio andato in frantumi, forse il timore di guardare in faccia se stessi, forse una metafora del vuoto interiore. “Venere – ahimè – nella tua vecchia alcova / l’Amor – ch’è luce – in bestia si rinnova”.

Un concitato gruppo di scimmie leguleie è stato scelto come rappresentante dell’ira. E’ interessante notare come si innalzi sul branco il giudice, insolitamente pacato, il cui gesticolare delle zampe giustifica le decisione terrena (nocche sul tavolo) attraverso il principio divino (indice puntato verso l’alto). La grottesca deformazione anatomica delle articolazioni rende impietosa la parodia: sono scimmie che imitano gli uomini o piuttosto sono i comportamenti umani che trascendono la scintilla del Creatore e regrediscono allo stato bestiale? E’ sicuramente per questa bassa fratellanza che dal piano dell’azione si sposta su quello fisiognomico e darwiniano che i rettili non sono contemplati nel bestiario: sarebbe troppo medievale e poco convincente la loro ibridazione con gli esseri umani. Se il disegno cade nel ridicolo non fa più impressione. E qui, come nei testi sacri, gli autori vogliono ribadire insegnamenti moraleggianti: “quando scocca de l’ira la scintilla / si estingue l’uomo e domina il gorilla…”

Certo Galizzi ha precedenti illustri nella umanizzazione degli animali, Isidore Grandville ed Heinrich Kley in primis, ma non è detto che ne conoscesse il lavoro. Si riscontrano però certe similitudini, anche con pubblicazioni per l’infanzia, come l’idea di far convivere uomini-animali con esseri completamente animali, per esempio l’uomo maiale accanto al cagnolino, richiama la soluzione disneyana scelta per Topolino e Pluto.

Non mi dilungo ulteriormente nelle spiegazioni, si sa che l’immagine vale più delle parole. A questo proposito, sperando di colmare una lacuna e fornire spunti per nuove ricerche, inserisco a corredo le foto di tutte le sette tavole della cartella e ne aggiungo anche alcune tratte da Il Nuovo Paradiso in quanto non mi risultano pubblicate in nessun posto. Buona visione.

I Sette Peccati Capitali, 7 tavole di G.B. Galizzi, distici di Luigi Medici, edizione Bolis Bergamo, tavole a colori applicate su fogli di carta a mano delle Cartiere Fabriano, rilegatura con cordino marrone, carpetta in cartone beige con immagine applicata in bicromia e stampa a secco in oro, formato in folio, non datato.

Il Nuovo Paradiso, testo di Elsa Banchini Steinmann, tavole in bianco e nero e a colori, Edizioni Labor, cartonato in quarto con dorso telato, non datato.




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