Il Requiem di Poe e Dulac

The Bells: le campane del poeta all’unisono con quelle dell’illustratore

Dulac1 di Giorgio Perlini

Edgar Allan Poe, per l’inaudita fantasia lugubre fonte di ispirazione ininterrotta fino a noi, è forse lo scrittore più illustrato della storia della letteratura. Il merito di questo primato è la sua inaudita  fantasia lugubre, fonte di ispirazione ininterrotta dalle prime pubblicazioni. Celeberrime le interpretazioni da parte di Dorè, Rackham, Clarke, meno note ma bellissime quelle di Byam Shaw, Alexandre Alexeieff, Ferdinand Huszti Horvarth, Lynd Ward, Fritz Eichenberg, Wilfried Satty, e poi quelle realizzate in Italia da Romeo Costetti, Brunetto Faggioli, Alberto Martini, e le versioni a fumetti di Battaglia, Corben, Alcazar, Wrightson. E come non fare menzione dei misteriosissimi disegni di Odilon Redon ispirati ai Racconti del grottesco e dell’arabesco?

Eppure il più straordinario contributo l’ha portato Edmond Dulac con una delle sue opere meno note, forse perchè non traduce in immagini i celebri racconti di Poe, bensì le poesie, in una raccolta intitolata The Bells & Other Poems.

La poesia di Poe possiede caratteristiche molto singolari; di musicalità magica e cadenza perfetta, impossibile da rendere in qualunque altra lingua a detta degli stessi traduttori, si serve dell’allitterazione e dell’onomatopea, privilegiando una vocale per ogni strofa. Secondo certi critici Poe era fornito di quella rara dote chiamata “orecchio assoluto” di cui si sarebbe servito in modo insolito, non per comporre sinfonie musicali bensì per orchestrare poemi, in particolare The Bells. Metafora dell’umana esistenza scandita dall’inesorabile trascorrere del tempo, le campane di Poe annunciano eventi tragici, come la scomparsa dell’amata.

L’illustratore francese Edmond Dulac, che lavorava a Londra per l’editore Hodder and Stoughton ricevette all’inizio del Novecento l’incarico di trasporre in immagini le poesie di Poe, tra cui le celeberrime The Bells e The Raven. Si trattava veramente di una impresa ostica, Poe era considerato un apice anche in Europa grazie alla critica entusiasta di Baudelaire, Dulac aveva allora trent’anni ed era costantemente sottoposto al confronto con il fenomenale Rackham; inoltre arrischiarsi con la poesia equivaleva a camminare sul filo del rasoio.

Eppure Dulac realizzò quella che credo essere è la più lirica delle interpretazioni di Poe. I suoi acquerelli evocano laddove le chine di Rackham per Poe’s Tales of Mistery and Imagination  imponevano, sfumano dove Rackam contornava. Le linee del disegno tendono a scomparire sommerse dal colore; ed in questo sta forse la differenza più evidente tra i due, l’inglese elabora un disegno raffinatissimo che prevarica su tavolozze pressoché monocromatiche, il francese pur usando un disegno altrettanto elegante lo scardina con l’accensione di cromie – allora mai viste nei libri – dove baluginano dei blu da maiolica di moschea ( la passione di Dulac per l’Oriente si era già manifestata con le tavole per Le mille ed una notte ed aveva trovato piena soddisfazione in quelle per Rubaiyat of Omar Khayamm ). Negli occhielli, dove la tecnica è costituita dal solo disegno al tratto, il chiaroscuro dato dall’incrocio dei segni crea di nuovo massa che annulla il contorno. Prevale una lettura di Poe commossa e triste, l’orrore è marginale, il decadentismo si imparenta con suggestioni sia neoclassiche che romantiche. Sembra che Dulac abbia davanti agli occhi L’isola dei Morti di Arnold Boecklin ma anche i marmi di Antonio Canova. Quando giunge alla rappresentazione della morte, passaggio obbligato – e forse anche desiderato – di ogni illustratore di Poe, continua ad occultare con macchie come pozzi senza fondo dove l’acquerello lascia appena intuire schegge di infinito. Rackham ebbe a dire del suo incontro con Poe qualcosa che tradotto liberamente dall’Inglese suona come “le illustrazioni erano così terrificanti che iniziai a spaventarmi da solo”. E forse per esorcizzare questi malcelati brividi devia Poe in una caratterizzazione ironica, con raffigurazioni della morte che assomigliano ad alcuni fumetti francesi degli anni Settanta, peraltro molto belli ma lontani dalle malinconie macabre del poeta. In altre immagini rivela una certa fretta risolutiva, evidentemente disturbato dalle circostanze in cui si trova faticosamente calato e desideroso di far ritorno agli allegri folletti del folklore inglese. Dulac lascia invece intatta al poeta la sua lugubre solennità: dalle illustrazioni si ricava una sorta di “poetica del cappuccio e del mantello” in cui tutte le figure appaiono intabarrate svelando appena una mano scheletrica, una caviglia ossuta. Questi emissari del buio sono accoppiati a diafane fanciulle catalettiche, svenute, quando non già trapassate. Se è assente l’incappucciato la sua funzione è delegata al drappo-sipario che scende ad occultare, rendendo più simbolica la fine del dramma (The conqueror worm, The sleeper). Probabilmente l’illustratore conosceva il gruppo scultoreo per la tomba di Philippe Pot, impressionante capolavoro della fine del XV secolo conservato al Louvre. A quell’opera si ispira per molte illustrazioni, in particolare Lenore (*). In Eldorado l’entità paludata nel sudario-mantello ed il cavaliere non possono non risvegliare il ricordo delle figure della morte e del principe Prospero nella Maschera della morte rossa. Questa simbologia dell’ammanto viene unita alla raffigurazione di specchi d’acqua come luoghi della scomparsa e del dissolvimento liquido, non solo dell’uomo ma anche dell’architettura, dunque del mondo intero (si osservino The city in the sea e Fairyland). Memorabili restano le immagini per la poesia che dà il titolo al volume, con il re degli spettri arrampicato sulle campane come Hop Frog sul lampadario ma ancora più spaventoso ( e così Dulac batte tutti coloro che si sono cimentati con la novella ) e la sua sudditanza mutevole, ora minacciosa ora consolatoria, che si allunga e si ritira nelle altre tavole, fra le quali si piazza l’invenzione di quelle teste alate di sfinge-cherubino, mirabili per segno, colore, composizione, evocazione. Giunge anche il momento, con The Raven, di rappresentare lo stesso poeta; chiuso in sé, evidentemente meditabondo fino alla depressione, trattasi di un vero ritratto di Poe, forse uno dei più belli che gli siano stati fatti, vestito con gli abiti con cui venne immortalato in alcuni noti dagherrotipi. Nella stanza buia il busto di Atena finisce tagliato per metà fuori dall’inquadratura e l’attenzione si sposta su di un ritratto ovale, probabilmente quello reso celebre dall’omonimo racconto; in tal caso Dulac sovrappone la figura di Poe a quella del pittore protagonista e ribadisce la sua conoscenza ed ammirazione per Poe tout-court. Insomma, illustra la sua poesia facendo riferimenti continui alla sua prosa. A conferma il libro si chiude con l’illustrazione per Alone, in cui citando Caspar David Friedrick ed il suo Viandante sul mare di nebbia, Dulac visualizza l’amico di Roderick perso nella contemplazione sublime della catastrofe che ha causato la Caduta della casa degli Usher.

Dulac entra in una simbiosi tanto perfetta da bruciare perfino la splendida visualizzazione di Poe che Harry Clarke opererà nel 1919 con le illustrazioni di Tales of Mistery and Imagination. Eppure quel volume è un capolavoro; Clarke riesce a rendere Poe come un intero, bellissimo, cosmo inesorabilmente contaminato dalla peste. Ed il suo stile grafico freddo e netto, già Deco coi neri impenetrabili ed i bianchi purissimi, diventava la metafora della lucida follia indagatrice del poeta di Baltimora. Dulac al contrario è deciso ad una interpretazione personale procedendo per nebbie e velature, universalmente accolte nel filone gothic-Poe da tutti quei media che nel Novecento si avvicineranno allo scrittore: le fumigazioni ottenute col ghiaccio secco dei film di Roger Corman, come le foschie realizzate con un mai del tutto dichiarato procedimento nei fumetti di Dino Battaglia. E pensare che la nebbia, che per noi è insita in Poe tanto da costituirne uno dei tratti essenziali, nella realtà di certe sue poesie, come The Bells, è  inesistente; la rilettura di Poe da parte di Dulac è così straordinaria da intrecciarsi con lui per sempre. Ma questo non è noto in quanto l’edizione illustrata non girò al di fuori dei paesi anglofoni tranne la Francia, dove venne edita dal prestigioso Henri Piazza. (in Italia non vide mai la luce, e le Arti Grafiche di Bergamo, che per prime – e quasi uniche – pubblicarono Dulac nelle penisola, su questo libro passarono oltre)(**).

Un suggerimento molto personale. Credo che riuscire a mischiare i sensi durante la lettura di un libro sia un’esperienza stupenda. Wilde sosteneva che gli odori producono le emozioni più intense; i libri, per esempio, hanno odori specifici dovuti a carta e ad inchiostri che diventano tutt’uno con le pagine rendendoli unici. Io penso che certi libri andrebbero letti con sottofondo sonoro. Ora se dicessi che quando Rachmaninoff musicò l’omonimo poema di Balmont, sapeva che quest’ultimo si era ispirato al componimento di Poe e dunque la scelta non può che essere questa, sarei ovvio. Dirò invece che c’è il brano musicale di un gruppo chiamato “Dead can dance” intitolato Summonig of the muse ( già il titolo potrebbe essere una lirica di Poe ) del 1987 che costituisce la colonna sonora ideale per questo libro. Per la verità merita l’ascolto l’intero disco ma la canzone in questione, coi suoi rintocchi funebri, possiede la giusta solennità musicale che sommata alla parola scritta e all’immagine crea una triade vicina all’unità delle arti ricercata da tanti artisti del passato. La scelta di un brano rock non sembri un azzardo, basti sapere che il disco è ispirato ai cimiteri monumentali europei e, seppure di musica contemporanea si tratta, mantiene una fortissima continuità con la Classica.

Edgar Allan Poe, The Bells & Other Poems – with illustrations by Edmond Dulac, edito da Hodder and Stoughton, 1912, copertina in percallina blu con titolo oro ed incisioni a secco arabescate col tema delle campane disegnato da Frank Hazen (siglata F H), specialista in design delle rilegature. Formato in quarto, 28 illustrazioni a colori stampate separatamente ed aggiunte come pagina intera, protette da veline col titolo della poesia; varie testatine in marrone scuro su fondo crema, pagine in carta forte non numerate. Cofanetto editoriale in cartoncino bianco.

L’opera esiste anche in versione di lusso realizzata in 750 copie numerate e firmate, con copertina in pelle ricoperta da seta bianca arabescata, formato in folio, 1913, medesimo editore della versione “trade”. Il prezzo si aggira tra i 1500 ed i 3000 dollari.

 

(*) La statuaria francese dei “frati dolenti” venne ripescata proprio dall’Estetismo e anche Gabriele D’Annunzio volle tra le suppellettili del Vittoriale quello stesso soggetto in più varianti e di differenti dimensioni.

(**) Per tornare a vedere Dulac in Italia si dovette aspettare, dopo i volumi editi dalle Arti Grafiche, fino al 1976, quando apparve la monografia Mondadori a lui dedicata da David Larkin. Poi negli anni Ottanta l’editore Stampa Alternativa realizzò alcuni libretti, curati da Omar Austen ed inseriti nella collana “Fiabesca”, con le tavole di Dulac allegate separatamente in forma di cartolina. L’operazione, sebbene pregevole, mostrava il limite delle dimensioni ridotte ed un numero di illustrazioni inferiori all’originale.




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