Su di un disegno di Paolo Caccia Dominioni

"Assumi la forma di un angelo..."

01dominionidi Giorgio Perlini

Nonostante il ciclo di mostre a lui dedicate negli ultimi anni, dell’attività artistica del Maggiore Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo non si è ancora scritto abbastanza. E’ ben noto che trascorse 14 anni a cercare le salme dei dispersi nella battaglia di El Alamein, ma in pochi sanno che suo è il progetto del sacrario a loro dedicato. Gli appassionati di Storia si ricordano delle molte medaglie da lui conquistate sul fronte ma ignorano che le sue qualità di scrittore gli valsero il premio Bancarella. Ma sopratutto egli fu un disegnatore attento ed arguto di situazioni in cui si trovò coinvolto direttamente: baracche al chiaro di luna, accampamenti devastati, sedute attorno al fuoco, notti stellate nel deserto. Dominioni disegna la guerra con poca retorica e va a cercarne gli aspetti da cui può estrarre una sottile, amara, malinconica ironia. Il segno è asciutto, tipico dell’architetto, eppure mostra un nerbo espressionista che lo imparenta ad un grandissimo illustratore del Novecento, Beppe Porcheddu. Soldati con i volti incruditi, dalla fisionomia lombrosianamente canagliesca, spesso vestiti con lacerti d’abiti storicamente esatti, esibiscono con fierezza una raffazzonata fasciatura delle ferite. Marciano sgangherati ma in ordine, con gambe legnose infilate nelle scarpacce chiodate, a ritmo di tamburi bersagliati dal nemico ma ancora efficaci. A guardarli bene rispecchiano proprio il motto che caratterizzò il XXXI battaglione guastatori d’Africa nel periodo in cui Dominioni ne assunse il comando: “la va a pochi”. E’ opinione diffusa che la frase avesse come sottinteso la licenza per tornarsene a casa ma questa interpretazione è riduttiva ed anche svilente; ci sembra evidente il riferimento a qualcosa di ben più importante, che potrebbe essere sì collegato al desiderio di un ritorno, ma per sempre, oppure alludere alla vittoria, ed anche in questo caso il motto suggerirebbe la morte come alternativa.

Ora dagli archivi del Museo della battaglia di Filottrano salta fuori un originale di Dominioni, con relativa documentazione autografa. Doveva servire come copertina della ristampa integrale, nel 1979, della rivista “Folgore”, organo ufficiale del corpo dei paracadutisti durante la seconda guerra mondiale. In quelle pagine si cercava di emulare quanto fatto da “La Tradotta”- giornale di trincea della III Armata – per il primo conflitto; ma mentre allora erano emersi talenti straordinari benché opposti, quali Antonio Rubino ed Enrico Sacchetti, dalle riviste successive non si distinsero disegnatori molto originali. E così la scelta cadde obbligata sull’unico artista/soldato di spicco, che prima ancora di essere tale era noto come eroe di guerra, decorato con medaglia d’argento al valor militare per aver riportato nel 1942 il XXXI battaglione guastatori come unico reparto superstite dopo il supporto ai paracadutisti nella battaglia di El Alamein. Nella lettera inviata da Dominioni al colonnello dei parà Pietrino Ardu e relativa all’immagine ancora da realizzare si legge “(…) Penserò al disegno da fare: peccato non poter utilizzare quello del calendario del ’78, già ristampato da una recente dispensa “Alamein” della collezione “I grandi fatti” edita da Montanelli. Il disegno non deve limitarsi a rievocare la Nembo, ma anche la Folgore ed essere valido sia per il deserto, sia per la linea Gotica. Penserò intensamente ad una soluzione che sia contemporaneamente sintetico-simbolica e realista (…)” poi, con la sua solita ironia “naturalmente avevo pensato subito a telefonarTi, ma sono diventato sordissimo, e se per caso la trasmissione non è chiara dovremmo ricorrere ai segni, cosa che molti trovano deprecabile nel caso di comunicazione a filo (…)”. E così riprende un disegno monocromo del 1941, dedicato ad Alberto Bechi, il fondatore del suddetto giornale, in cui un corpo nudo, parzialmente velato da un’ala di gabbiano si getta in picchiata sulla terra, suggerita da piccole case lontane. Lo reinventa a china e tempera con maggior astrazione invertendo la direzione della caduta, che va da sinistra verso destra, e sostituisce il gabbiano con un rapace. Le architetture scompaiono ed una spirale di fumo scuro sale verso il cielo. Il fondo è colorato d’arancio (“ valido sia per il deserto che per la linea gotica”, appunto, le sabbie africane ma anche i tetti toscani e le abbazie in cotto delle Marche) per suggerire il volo nello spazio romantico d’un’aurora o di un crepuscolo. Nel momento della firma, piuttosto di un realistico ma poco incisivo 1978 pone ancora la data del 1941 e l’indicazione di Tarquinia (*). Non più il San Michele in spadone e corazza medievale, protettore delle milizie, ma un angelo molto umano, senza ali, dal volo simbolico; un corpo classico privo di quegli accenni al grottesco di cui l’artista si serviva abitualmente per evidenziare la ruvidità dei combattenti. Non ascende ma si butta a capofitto, più con istinto di salvataggio che con finalità di conquista; e forse non è neanche una picchiata bensì una caduta, ancora senza retorica e stavolta anche senza ironia. In questa circostanza lo spicchio scoperto di viso dell’angelo non è sufficiente per scorgere uno sguardo di sfida o l’ardimento di un “me ne frego”; l’armonia di quel personaggio affusolato nel tuffo suggerisce un suo possibile ritrovamento marmoreo tra i filari dei cipressi d’un cimitero monumentale ed evoca l’accettazione consapevole di un sacrificio che ha qualcosa d’universale.

(*) La data del 30 aprile del 1941 rappresenta il primo lancio in guerra dei paracadutisti italiani su Cefalonia a cui seguì l’occupazione dell’isola. Tarquinia è invece la cittadina sede della prima scuola paracadutisti d’Italia.

Pubblicato in  www.filottrano1944.it  – Sito del Museo memorial della battaglia di Filottrano




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