Pennelli e specchi nell’arte di Boris Vallejo

Ego, pictor

TheLochNessMonster

di Giorgio Perlini

L’articolo che state leggendo giunge “a grande richiesta”; i lettori di AAA conoscono e amano la pittura di Boris Vallejo. Confesso che quando mi venne chiesto di scriverlo, già ai tempi delle primissime uscite del magazine, storsi un po’ il naso. Vallejo mi piaceva molto nel momento in cui apparvero in Italia le prime pubblicazioni americane su di lui (all’epoca avevo vent’anni), poi col tempo il mio entusiasmo era scemato senza che sapessi bene perché. Crescendo e approfondendo gli studi sulla pittura avevo operato una revisione critica inconscia che lo aveva ostracizzato dalle mie preferenze. Questo articolo ha costituito l’occasione per riflettere sui motivi di tale scelta, dunque espone una visione assolutamente personale e non necessariamente condivisibile.

E’ innegabile che la pittura di Vallejo eserciti malia su chi la guarda; possiede tutti gli elementi per ficcarsi nell’occhio dello spettatore e far breccia nel suo cuore, le tematiche eroiche ed erotiche, la composizione calibrata, il colore sempre squillante, la sfumatura morbidissima e rapida al tempo stesso, l’indiscutibile perizia tecnica nel miscelare aerografo e pennelli. E la nitidezza estrema, tanto ammirata e  copiata da quei seguaci che cercano di riprodurre le sue opere su ogni superficie disponibile, soprattutto quelle di cofani e serbatoi. Questa nitidezza segna uno degli elementi di distacco dall’operato dell’ancor troppo poco celebrato maestro Frank Frazetta, più sintetico e ruvido, capace di delineare un volto in secondo piano con due colpi di pennello, e diventa caratteristica fondante e cifra stilistica di riconoscimento dell’artista peruviano – si pensi alla rappresentazione della schiuma, delle bolle, della materia trasparente e lucida, con tutti i riflessi iridescenti dipinti in punta di pennello -. Ora succede che questa “alta definizione” porti Vallejo a concentrarsi su di una raffigurazione eccessivamente estetizzante del corpo nudo, il polpaccio depilato, il polso flesso in avanti per aumentare il volume del bicipite, il piede che poggia solo la punta per evidenziare il tendine teso, tutto sa di foto in sala di posa dopo una seduta di lampade abbronzanti e creme agli estrogeni (si prenda la serie di immagini dedicate ai segni zodiacali, come Capricorn, o Leo del 1987, tanto per fare un esempio). Frazetta sapeva benissimo (e a guardar bene il filone era uno dei pochi ad averlo capito) che non basta mettere una scure in mano ad un palestrato per avere un guerriero; Vallejo all’opposto sembra quasi chiedere al modello di atteggiarsi come un culturista con l’arco piuttosto che come un arciere, come un divo col giavellotto piuttosto che come un lanciere. E a quanto pare l’artista ed il modello coincidono, o almeno coincidevano quando Vallejo non aveva ancora i capelli bianchi, e certi soggetti altro non sono che autoritratti allo specchio, e lo specchio, lo sappiamo tutti, è la concretizzazione della vanità. L’artista infatti, oltre alla passione per la pittura, coltiva quella per la palestra, come testimoniano varie fotografie in cui si è immortalato con i pesi in mano. Sua moglie Julie Bell, anche lei pittrice di talento, ha praticato body building a livello agonistico per diversi anni e pare che abbia vinto anche alcuni premi. Così questa donna diventa musa e modella per le eroine dipinte dal marito, finché il rapporto non si ribalta, la modella prende in mano i pennelli ed è il pittore a mettersi in posa; poi succede che entrambi vogliano restare in due ruoli e così posano l’uno per l’altra e l’opera riporta due firme. Il processo creativo è interessante ma una così spiccata poetica dell’effimero va inevitabilmente a discapito della spontaneità e del realismo, e fa pensare ad una destinazione dei dipinti verso un pubblico prevalentemente femminile, attratto più dalla bellezza dei soggetti che da quella dell’opera. Non è il narcisismo di per sé che disturba – la vanità è un peccato frequente tra gli artisti – quanto la tipologia del narcisismo; ci si può vantare per il pensiero, per l’operato, per infiniti motivi, ma qui lo si fa per lo sfoggio di una bellezza schiava dello star system. In quei corpi c’è più consumismo che fantasy.

Quando Vallejo si allontana da questi parametri leziosi e si dimentica di essere tecnicamente così bravo crea opere di grande impatto visivo. Ne commenteremo alcune. Partiamo da The Tree. Al primo sguardo si legge solo un prigioniero legato ad un albero, poi sbuca una seconda testa coronata da corna lignee e si comincia a capire che il vegetale è antropomorfo. E’anche rivolto verso il prigioniero in modo ambiguo, e ciò porta a riflettere sull’espressione del viso dell’uomo che sembra in abbandono estatico. E’ quasi una costante nei volti dei suoi personaggi ma stavolta si tratta di due figure maschili, e tenendo conto che il dipinto è del 1979, quando l’omosessualità veniva affrontata raramente, per non dire mai, l’immagine è decisamente forte. Il tema verrà riproposto dall’artista altre volte, più spesso con la variante saffica. The Vampire Kiss e Golden Apples sono moderne e disinibite interpretazioni della favola della bella e la bestia, differenti nel rapporto instaurato tra le due creature; la prima rivela la fragilità femminile fisicamente sottomessa e plagiata nella psiche dalla forza ipnotica demoniaca, la seconda inverte il rapporto e mostra la donna dominatrice e artefice di un gioco perverso col mostro, essere inferiore inconsapevole della relazione torbida con la padrona. In entrambi i casi le epidermidi creano contrasto, per tessitura e per colore, morbidezza contro viscidità e bello e brutto si potenziano reciprocamente. Mother and Daughter è uno dei soggetti meno famosi, probabilmente perché poco commerciale rispetto agli altri, dunque interessantissimo. Si parla ancora di donne, due, ma una volta tanto ciò che lega le figure non è l’attrazione fisica, bensì una vischiosa cattiveria. Tra la madre grifagna e la figlia cadaverica c’è un cordone ombelicale che sa di marcio, ci si immagina una guerra d’invidie dove la più vecchia prevale assorbendo la vita a chi, secondo natura, dovrebbe regalarla. Sicuramente è il dipinto più malsano e disturbante dell’artista, mai più replicato.

Lochness monster è la raffigurazione di un altro mito, quello dei mostri che abitano le profondità acquatiche. E’ la messa in scena del terrore. Mi impressionò quando la vidi per la prima volta, usata come copertina per un numero de L’Eternauta, storica rivista di fumetti degli anni Ottanta e Novanta. Il terrore è quello del piccolo personaggio (una volta tanto niente primo piano sui muscoli!) in barca, ma trasmigra all’osservatore attraverso l’acqua increspata, l’agitazione di tutti gli elementi e l’atmosfera generale, livida. Le due figure, uomo e mostro, si trovano inghiottite in un ambiente animato che supera la connotazione di sfondo e assurge a coprotagonista.

Concludiamo con Tattoo, del 1981. L’immagine ha una potenza endogena straordinaria: dal nero, dall’oscurità, prende forma il soggetto (e qui Vallejo dimostra di aver ben imparato alcuni degli insegnamenti di Frazetta), un torso, indurito anche questo ad esaltare i muscoli, ma stavolta a ragione, poiché la contrazione è dovuta all’inaspettato morso del drago. Il rettile si è materializzato dal tatuaggio dell’uomo misterioso (bella l’idea, è un protagonista ma non si vede in volto, così che l’attenzione vada tutta sul mostro; uno dei pochi dipinti dell’artista che non cede alla rappresentazione della bellezza maschile, e proprio per questo uno dei più riusciti). Da quel braccio tatuato prende vita una creatura che per metà resta appiattita sulla pelle e per metà diventa tridimensionale, si erge fuori dalla carne e affonda i denti sulla stessa. Mi sembra che la lettura più efficace sia quella metalinguistica; l’artista ha raggiunto un tale grado di aderenza al vero da dirci che ciò che dipinge, doppiamente inesistente – è solo colore ed è un essere immaginario -, può essere scambiato con la realtà. Il drago è la metafora della pittura stessa di Vallejo, che esce dallo spazio della tela per entrare in quello del mondo e diventare oggetto tanto fisico da aggredire le cose; queste al suo cospetto non sembrano che pallide riproduzioni pittoriche.

Le pubblicazioni dedicate alle opere di Vallejo sono numerose ma spesso ripropongono gli stessi soggetti. Si suggeriscono due volumi, il primo per l’insuperata energia dei dipinti degli anni Settanta-Ottanta, il secondo per seguire l’evoluzione dell’artista ed il lavoro in coppia con la consorte:

Mirage, Collins & Brown Limited, 1982 (prima edizione), volume brossurato in quarto. Il volume è stato ristampato nel 1996 e nel 2001, con aggiunte e copertina rigida con sovracoperta.

Imaginistix – Boris Vallejo & Julie Bell, a cura di Antony e David Palumbo, Harper Collins, 2007, cartonato con sovracoperta, in quarto.

Infine, per chi volesse cimentarsi con la pratica pittorica seguendo i consigli del maestro:

Boris Vallejo and Julie Bell, Fantasy Workshop, Thunder’s mouth press, 2003, edito sia in versione brossurata che cartonata, in quarto.

 

Biografia:

Boris Vallejo (in arte Boris) è nato a Lima (Perù) nel 1941. Ha frequentato la Scuola Nazionale di Belle Arti di Lima e nel 1964 si è trasferito negli Stati Uniti. La sua predilezione per le tematiche fantasy, unita al suo stile classico e alla raffinatezza a cui porta la tecnica della pittura ad olio lo fanno individuare, già a metà degli anni Settanta, come un interprete ideale delle opere di Edgar Rice Burroughs, Lin Carter, Larry Niven, Frederik Phol e Alice Chetwynd Ley. Alcuni vedranno in lui l’erede dell’indimenticabile Frank Frazetta.

Si avvia anche la collaborazione con alcune testate della casa editrice di fumetti Marvel con la realizzazione di copertine: Tales of the Zombie, Dracula lives!, The savage sword of Conan, (alcune apparse in Italia – mostrando per la prima volta il lavoro dell’artista – come copertine del leggendario Corriere della Paura nel 1974).

Contemporaneamente presta il suo pennello ai manifesti cinematografici: Barbarella – Queen of the galaxy (1968) diretto da Roger Vadim ed interpretato da Jane Fonda, Knightriders (1981) di George Romero, Q (1982) La regina dei barbari (1985), National lampoon’s vacation (1983, film nato da una nota rivista umoristica americana che diede vita a vari episodi cinematografici, il più celebre dei quali è Animal House ) ed infine Rubber (2010).

Il gruppo rock Ween gli dedica una canzone intitolata proprio Vallejo dichiarando che l’artista costituisce l’unico caso di pittore in grado di ispirare la loro musica. Nel 1994 convola a nozze con Julie Bell (Texana, classe 1958) pittrice anche lei. (Ha all’attivo immagini per campagne pubblicitarie di ditte come Nike, Coca-Cola, Ford, Mattel e Carlsberg). I due lavorano spesso in coppia, a tecnica mista, studiando e elaborando bozzetti a matita o a china, componendo digitalmente immagini fotografiche di base e passando infine alla pittura vera e propria. Con le nozze si stabiliscono definitivamente a vivere e lavorare in Pennsylvania.

Il loro official site in internet offre stampe autografate di tutte le dimensioni e se si è disposti a spendere (ma la parola giusta potrebbe essere “investire”) intorno ai 7000 dollari ci si può aggiudicare un dipinto originale.

Boris ha un figlio, Dorian, figlio d’arte con destino segnato. E’ infatti pittore anche lui, dedito a ritratti intimisti che rivelano, benché si tratti di un genere molto diverso, un’ispirazione ed una poetica forse superiori a quelle paterne .

 

Apparso su: AEROART ACTION n. 7 del 2011



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