Dave McKean, computer e penna d’oca

Decadentismo d’avanguardia

02di Giorgio Perlini

In questi giorni ho ripescato un vecchio, bellissimo, mazzo di tarocchi creato da Dave McKean. Il mazzo è composto dai tradizionali 22 arcani maggiori più i 40 arcani minori divisi in quattro semi, ed infine le dodici carte dedicate alla corte (fante, cavallo, regina e re). Ammirando le 78 immagini, tutte diverse e che non nascondono molte citazioni agli stessi personaggi dei fumetti della casa editrice, la Vertigo (Constantine, Black Orchid, Death, Sandman), ho pensato che l’oggetto è poco noto in Italia e mi sono ricordato di un articolo scritto quando ero poco più che un ragazzo in occasione della prima edizione italiana di Sandman – Le Eumenidi in volume ( 1996 ). All’epoca avevo una scrittura ridondante e contorta, ed ero abbastanza determinato a scrivere ciò che volevo, così l’articolo non tratta propriamente del fumetto ma dello stile di Mckean, autore delle copertine. Così trovo che il pezzo si addica alla perfezione anche a questi tarocchi e lo ripropongo con l’aggiornamento di una nota finale.

Lo so che recensire una storia di Sandman è impresa ardua, lo so che si rischia di scrivere qualcosa che nessuno capisce (tranne quelli che hanno già letto il fumetto, ma allora la recensione a che serve?), lo so che dice già troppo da solo e non ha bisogno di qualcuno che ci filosofeggi sopra ulteriormente, dunque cercherò di non farlo. Forse Neil Gaiman ha intuito che la sua scrittura densa di rimandi e citazioni di ogni tipo, dai racconti di Hoffman alla musica e all’immaginario visivo dei “Cure” e di “Siouxsie and the Banshees”, aveva bisogno di un disegno semplice e diretto, senza complicazioni di sorta, e così le tavole sono state affidate a disegnatori sintetici piuttosto espressionisti. Ma se ci teniamo tanto alla bravura possiamo andare a guardarci le tredici immagini (più copertina e frontespizi) di Dave Mckean, in assoluto il più affascinante degli artisti-fumettari degli ultimi anni. Ecco la coppia che funziona a meraviglia, capace di mietere premi ovunque; chi ha avuto la fortuna di leggere Black Orchid, Violent Cases, Signal to Noise e Mr.Punch sa di cosa parlo. E proviamo a risalire alle origini dell’estetica di McKean: tutto cominciò nel 1984, quando la casa editrice discografica 4AD mandò sul mercato dei dischi le cui copertine sfumate, misteriose e piuttosto malinconiche, colpirono l’immaginario di tutti, non solo i compratori, ma anche i venditori, i produttori e gli stessi musicisti. Il mensile “Rockerilla” invitò i lettori a votare la copertina dell’anno e furono in molti ad indicare quella del primo disco dei “This mortal coil”, che mostrava una ragazza triste avvolta dalla nebbia. Nel giro di pochi anni i gruppi del rock malinconico crebbero e si moltiplicarono, diventando il prodotto specifico che contraddistingueva la suddetta etichetta. “Colourbox”, “The Wofgang Press”, “Cindy Talk”, “Dif Juz”, “Xmal Deutschland”, “His Name is Alive”, “Bel Canto”, “Pixies”, “In the Nursery”, nonché i famigerati “Cocteau Twins” e “Dead Can Dance”, si contendevano ogni anno il primato del disco e della copertina. Sotto il profilo musicale, pur essendo tutti prodotti molto coinvolgenti, opere di musicisti realmente ispirati, raramente raggiunsero la poesia dei primi due l.p. dei “This mortal coil”. Fattostà che si diffuse un music look fatto di opaline e merletti anche dove non era affatto necessario (per esempio nei prodotti da discoteca) e che purtroppo divenne moda, snaturando le intelligenti origini del fenomeno, la cui caratteristica interessante era proprio l’esatta corrispondenza delle sensazioni suscitate dalla copertina con quelle suggerite dal disco che c’era dentro. Si sprofondava in un torpore visualizzato con volti preraffaelliti, piogge sui vetri, gamme cromatiche ridotte ai grigi, respiri che appannavano le finestre, bagliori da lanterna magica, cieli prima del temporale, angeli barocchi, orologi con i meccanismi in bella vista, polvere sui vestiti nuziali delle nonne. Insomma l’estetica fotografica ritornava alla seconda metà dell’Ottocento, quando Julia Margaret Cameron e Lewis Carroll, un po’ per scelta poetica, un po’ per limite tecnico (obbiettivi poco precisi, tempi di posa troppo lunghi) -e secondo i detrattori un po’anche a causa della miopia- impostavano i dettami della foto sfocata. (A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta ci aveva provato David Hamilton, raggiungendo una fama incredibile che lo portò dovunque, perfino sulle copertine dei quaderni e al cinema, con un film da dimenticare intitolato “Tenere cugine”. Hamilton rappresenta un’apoteosi del kitsch e si giustifica solo nell’ingenuità del pubblico dell’epoca a cui per sospirare bastava una ragazzina qualunque fotografata con una ditata di vaselina davanti al teleobiettivo. Oggi gli daremmo del superficiale, dell’effeminato – ciò lo renderebbe alla moda -, ma anche del pedofilo. Per fortuna i fotografi dei dischi della 4AD fecero finta di non averlo mai visto).

Dave McKean è arrivato con le sue immagini misteriose poco prima della fine degli anni Ottanta, evidentemente toccato da quel tipo di ricerca, e pur non essendone l’inventore, in poco tempo si è rivelato il sovrano indiscusso della suddetta estetica del fascino triste poiché riesce ad evocare mille storie per ogni immagine. Sperimentatore irrequieto, abile manipolatore di tutte le tecniche e di tutti gli strumenti del fare artistico, virtuoso, sempre nuovo pur conservando l’eredità dei grandi del passato, ha trasformato in capolavoro ogni cosa su cui ha messo la mano. E’ partito, prima ancora che dalla fotografia, dall’idea del fumetto pittorico la cui paternità potremmo riconoscere a Bill Sienkiewicz (per la verità alcuni autori latino-americani sono venuti prima di lui, ma era tutt’altra cosa), per approdare al suo ineguagliabile concetto di arte dove la foto si unisce alla pittura, sia a tempera che ad olio, al disegno a matita e ad inchiostro, alla sovrapposizione di oggetti tridimensionali come cornici fin de siècle, ampolle dal contenuto scintillante, piume in sospensione, foglie di infusi medievali, bulloni mangiati dalla ruggine, teschi d’uccelli premonitori, nervosi fili elettrici e fiori in esplosione cromatica; il tutto montato in modo esemplare attraverso la grafica computerizzata, così che l’osservatore resti confuso, non distinguendo più cos’è dipinto e cos’è fotografato. Di solito, la domanda che ci si pone subito davanti ad una copertina di “Sandman” (le ha realizzate tutte McKean) è: “Ma come avrà fatto?”. Poi, alla seconda occhiata si resta storditi da un’elegante sovrastimolazione visiva, ogni forma è un simbolo segreto da ricollegare col tutto. Il tema centrale su cui l’artista lavora è il tempo, mostrato come agente determinante dell’essere delle cose. Il tempo che segna, consuma, rode, rende affascinanti gli oggetti sedimentando su di essi delle storie, conferendo una bellezza epidermica anche a ciò che di per sé sarebbe insignificante. Le immagini di McKean evocano qualcosa di lontano, prezioso eppure dimenticato, nascosto sotto chiave in chissà quale baule. Nessuno meglio di lui poteva dare corpo a ciò che corpo non ha, i sogni. Difficili da ricordare, ermetici da comprendere, impossibili da concretizzare, essi hanno finalmente qualcuno che li imprigiona nel suo computer (la trappola demoniaca) e li stampa per noi su carta. Il tempo si riflette nello specchio oscuro (lo schermo del computer) e si sdoppia diventando metafora di se stesso. Il tempo della realtà non è lo stesso dei sogni, e quello dei sogni è diverso per ognuno di noi. Sandman, il signore dei sogni, ha sicuramente accolto McKean nella sua corte bislacca e lo usa come un artista factotum del Rinascimento, instancabile, per i sogni di tutti. Gaiman invece fa da consigliere. Tra i due basta un’occhiata per intendersi, lo sceneggiatore suggerisce ed il disegnatore si mette al lavoro, libero di interpretare il canovaccio a modo suo; e la mummia, le radici, la clessidra (ancora il tempo, il tempo, il tempo) si trovano a convivere con i fuochi d’oriente, il Corinzio senza occhi e con tre bocche, il filo attorcigliato delle Parche, i corvi parlanti. Insomma sfogliare, guardare e leggere per sognare ad occhi aperti. Ve lo dico io che sono tanto entusiasta da mettermi a scrivere quando mi manca ancora la lettura degli ultimi tre capitoli. Del resto, come diceva Oscar Wilde, per capire se il vino è buono non occorre bere tutta la botte, e io sono già quasi ubriaco di sogni.

Per quanto mi riguarda Dave McKean ha marcato un segno di qualità altissima nel canale doppio del fumetto e dell’illustrazione più varia; dai tempi di questo articolo infatti la sua produzione si è diramata in ha copertine di cd, manifesti e collaborazioni cinematografiche. L’operazione veramente geniale, condotta con costanza, è stata l’applicazione di tecnologie d’avanguardia per proiettare nel futuro il lascito di un passato artistico – e più generalmente culturale – imprescindibile. Ecco perché era l’autore ideale per rinnovare (*) una tradizione antica come quella dei tarocchi, depositari della predizione di un tempo che deve ancora venire basata su quello già trascorso. Se esistono neologismi per identificare certe tendenze contemporanee principalmente letterarie, ad esempio “Steampunk”, credo ci sia bisogno di un conio per indicare le opere di McKean, le quali hanno contribuito alla diffusione di un vero e proprio genere, che forse ha già iniziato una fase di declino e si crogiola in questa decadenza. Propongo: “Moreau’s Monitor” e “Digital Absinth”.

(*) valga per tutti l’esempio in cui al posto del seme “bastoni” figura un magico “bacchette” , alcune delle quali assumono l’aspetto di (auto)celebrativi pennelli, e il classico “denari” viene sostituito da un più esoterico “pentacoli”.

The Vertigo Tarot, di Dave McKean, mazzo originalmente stampato nel 1995 in tiratura di 5000 copie con libretto cartonato e sovraccoperta, ristampato nel 2001 con le carte di formato leggermente ridotto. Segue poi una riedizione in differente confezione in cartone e celluloide, medesimo mazzo di 78 carte più libretto ma brossurato, 130 pagine esplicative con foto in bianco e nero, scritto da Rachel Pollack ed introdotto da Neil Gaiman, con allegato sacchetto di velluto nero stampigliato in oro per contenere le carte, 2008.




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