Giovanni Boccaccio e John Byam Shaw

Italia ed Inghilterra vanno a braccetto

boccacciocoverdi Giorgio Perlini

L’idillio di una metaforica sorellanza tra nazioni visualizzato dalla pittura preraffaellita e nazarena si concretizza in modo articolato nella realizzazione di questo libro. L’Italia e l’Inghilterra non sono mai andate così d’accordo, eppure l’arte è capace di compiere miracoli. Può avvenire che la rilettura del Decamerone da parte di un pittore inglese dell’Ottocento diventi la più bella interpretazione di uno dei classici della letteratura italiana trecentesca. Forse contribuì la mediazione di Geoffrey Chauser con i suoi Canterbury Tales, fatto sta che John Byam Shaw regalò all’editoria una manciata di tavole splendide per un’edizione anglosassone datata 1899, Tales from Boccaccio. La biografia dell’artista è ampiamente documentata sul web, dove si raccolgono notizie sulla sua versatile personalità di pittore, decoratore d’interni, scenografo, insegnante di disegno. La celebrità raggiunta fu tale che alla scuola di belle arti da lui fondata venne dato il nome di Byam Shaw school of art fin quando non confluì nel Central Saint Martin College of Art and Design. Merita ricordare che in questo istituto svolsero i loro studi molti illustratori notevoli tra cui spicca la figura femminile di Eleanor Fortesque Brickdale, sulla quale è stato indagato ancora poco. Ma l’attività meno conosciuta di Byam Shaw è proprio quella legata all’illustrazione del libro, campo in cui ottenne dei risultati meravigliosi. Il pezzo più celebre è senza dubbioThe Garden of Kama di Adela Florence Nicolson, seguito da una ricercata edizione degli onnipresenti racconti di Edgar Allan Poe, intitolata Selected Tales of Mistery (*). In verità le due opere, sebbene di alto livello, attraggono per essere caratterizzata l’una da forte erotismo, l’altra perché Poe è sempre e comunque un magnete psichico. Però tutte quelle tavole, peraltro neanche stampate troppo bene, non reggono il confronto con il bianco e nero modulato all’infinito di questo volume di piccole dimensioni (16 cm per 20) già straordinario nella modernità piatta e schematica della sua copertina liberty tendente al Japonisme, dove l’abito a cuori neri della fanciulla, in contrato col il tocco scarlatto del libro che tiene in mano, raggiunge la sintesi estrema per forma e colore delle sperimentazioni grafiche che in aree diverse d’Europa andavano effettuando Eugene Grasset, William Nicholson, e Giorgio Kienerk. La lettrice è una delle ragazze dei racconti, mirabile esempio di metalinguaggio applicato a quella copertina efficace come un manifesto pubblicitario. Aperto il libro, dopo un frontespizio che preannuncia che le immagini saranno più elaborate, si spalanca un’illustrazione a doppia pagina, fitta di particolari ottenuti col tratteggio più esperto e meticoloso che un pittore possa impegnarsi a tessere. Su quell’immagine bisognerebbe restare a lungo, cogliere tutti i rimandi, comprendere la cultura preraffaellita di cui Shaw è imbevuto. Le sette donne ed i tre uomini descritti da Boccaccio sono adagiati su di un prato dalla ambigua prospettiva rossettiana, volutamente impennata così da contrastare con la mirabile naturalezza delle figure. In primo piano la descrizione della flora cala in ognuno dei suoi componenti come in un erbario medievale. Il richiamo non è solo all’introduzione ma anche alla decima novella: “Io vo pe’ verdi prati, riguardando i grandi fiori, e gialli, e i vermigli, le rose in su le spine, e i bianchi gigli (…)” e soprattutto alla terza giornata “Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in quel luogo, lungo sarebbe a raccontare; (…) era un prato di minutissima erba e verde tanto che quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso d’intorno di verdissimi e vivi aranci e cedri (…) Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con meravigliosi intagli. Iv’entro, non so se da natural vena o da artificiosa, per una figura la quale sopra una colonna che nel mezzo di quella diritta era, gittava tanta acqua e sì alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol suono nella fonte chiarissima ricadea (…) Il veder questo giardino, il suo bell’ordine, le piante e la fontana co’ ruscelletti precedenti da quella, tanto piacque a ciascuna donna e a’ tre giovani che tutti cominciarono ad affermare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiungere (…)” Shaw continua aggiungendo uccelli e conigli all’idillio. Le scale sullo sfondo alludono all’appartenenza del giardino ad un palazzo nobiliare. Pare di dover scovare, in questa tavola summa, gli indizi di ciò che verrà raccontato poi, qualche dettaglio nascosto che rivela una colpa, un peccato in mezzo a tanta bellezza, magari la testa di Lorenzo interrata da Lisabetta in uno dei vasi con le rose.

A colpire nelle tavole successive è ancora l’animato realismo con cui l’artista disegna cose passate che, si penserebbe, non poteva aver visto dal vero. Ma è evidente che usa modelli e fa loro indossare abiti d’epoca, e acconcia le donne di fine secolo secondo fogge medievali fino a farne perfette madonne. Il modo in cui cadono le stoffe pregiate dei mantelli e delle cioppe, gli sboffi spiegazzati delle maniche di camicia che contrastano con l’aderenza delle calzebraghe divisate, le vistose ed ingombranti calzature poulaine che allungano i piedi, i mazzocchi da cui spuntano le capigliature fluenti sono tutti elementi che conferiscono vivacità quasi domestica a quelle scene d’un altro tempo. E tutti gli arredi, anche quelli esterni dove certi anacronismi – come la fontana sormontata da una ninfa fluviale stilisticamente spostata in avanti di almeno 150 anni rispetto al contesto – si perdonano bonariamente per la splendida resa degli stessi col solo nero dell’inchiostro (nel caso citato i riflessi del bronzo). Certo Byam Shaw si documentò accuratamente e poi unì quella moda antica con la modernità dell’inquadratura fotografica, valorizzando gli errori di certi tagli casuali ed imprevisti. Infatti ci sono oggetti, ma anche animali e personaggi umani che fuoriescono dalla scena occultando la testa e lasciando visibili corpi tronchi o addirittura solo gambe e piedi. La spazialità degli ambienti è dilatata dalla vertigine di prospettive quasi grandangolari eppure le stesse vengono rese ambigue da superfici riflettenti in modo anomalo. Si veda al proposito l’immagine con Isabella (Lisabetta) morente sdraiata su di un pavimento dalla classica fuga diagonale ma talmente lucido da far sembrare i motivi circolari della decorazione una surreale serie di pozzi. Come ampiamente rilevato in altri articoli dedicati agli illustratori dell’epoca, anche Byam Shaw attinge abbondantemente dai classici dell’Arte. Oltre alla pittura di tutto il Quattrocento italiano (le picche di Paolo Uccello, i gonfaloni di Andrea Mantegna, le architetture esili di Beato Angelico, le movenze leggere di Sandro Botticelli), si trovano evidenti citazioni tra Neoclassicismo ed Impressionismo, tra David e Degas. La figura pallida del ragazzo in fin di vita, vegliata dalla dama in nero (Giovanna) della novella di Federigo degli Alberighi, è ispirata alla celeberrima Morte di Marat e la scena del banchetto con lo slancio di Adalieta verso il sultano avviene attorno ad un tavolo ripreso per intero dal dipinto I bevitori d’assenzio. Nei paesaggi, nitidi da definire le singole foglie, traspare la poetica di John Ruskin. Per controbilanciare la partita potremmo ipotizzare che dalle tavole della nona novella della decima giornata abbia attinto a sua volta Rene Bull; le sinuosità del palazzo di Saladino e delle nuvole che trasportano via Messer Torello sembrano proprio sorelle di quelle disegnate nella sua interpretazione delle Mille ed una notte (Arabian Nights, 1912). E per dirla tutta perfino Maxfield Parrish potrebbe aver visto questo libro prima di disegnare certi suoi magici giardini.

Fedele alla vivacità della prosa boccaccesca nello spirito se non nelle singole casualità, il disegno coglie spontaneità inedite, come l’uomo visto di spalle che sbuccia una banana per la scimmietta. Resta nella memoria dei fortunati possessori del libro la ricerca della sospensione dell’attimo, del bloccare il soggetto estrapolandolo dal flusso temporale come solo col mezzo fotografico si può ottenere. E allora ecco che le piume e le foglie cristallizzano a mezz’aria, i vapori definiscono in modo netto le loro informità, i cavalli fissano i loro salti attraverso lo sfoggio di criniere caramellate con una grazia che nessun tassidermista sarebbe capace di infondere alle proprie creazioni.

Tales from Boccaccio è bellissimo, anche nella veste tipografica, avrebbe solo meritato una stampa di dimensioni più grandi: allora sarebbe entrato a far parte dei Classici imprescindibili della storia dell’illustrazione. Limitato da un formato in ottavo, forse per poterne contenere il prezzo, è spesso passato come un libretto trade, che per superficialità si evita di sfogliare; mi piace riscoprirne l’alto valore grafico e ricollocarlo nella sua meritata sede, accanto alle opere di quei disegnatori tanto noti che non vale neanche menzionare.

 

(*) Nello stesso anno della pubblicazione di Tales from Boccaccio e con la tecnica evidentemente congeniale del disegno ad inchiostro Shaw si impegnò nella realizzazione di circa 500 immagini per The Chiswick Shakespeare che risultano, probabilmente per la mole del lavoro, meno articolate nella gamma dei mezzitoni e distribuite su ben 34 volumi.

 

Tales from Boccaccio, done into English by Joseph Jacobs, illustrated by Byam Shaw, edito da Truslove, hansom & Comba, 1899, in ottavo, copertina cartonata con impressioni a secco e rialzi in oro, taglio superiore dorato, 19 pagine illustrate ad inchiostro nero e tutte le altre con testo incorniciato sempre in nero.

 

 





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