Pin-up futuribili e giocattoli spaziali nell’opera di Hajime Sorajama

Macchine a sangue caldo

EditorialSpirit1

di Giorgio Perlini

Ci sono artisti il cui nome nessuno conosce ma le cui opere tutti hanno ben presenti. Se avete almeno trent’anni anni e vi chiediamo chi sia Sorayama probabilmente rispondete di non averne la più pallida idea ma se invece vi chiediamo se ricordate certe immagini di robot dalle fattezze femminili molto sensuali che spiccavano tra le pubblicità sui settimanali degli anni Ottanta, sicuramente rispondete in modo affermativo. In particolare ce n’era una, con la robotessa tutta cromata, che con una mano si teneva i lacci del costume rosa shocking e con l’altra reggeva un bicchiere di whiskey con limone, inginocchiata su di una superficie tipo plasma solare, sullo sfondo di un cielo nero da spazio siderale. Era stata realizzata per la Suntory, una ditta giapponese di alcolici, ed è l’immagine che ha reso famoso l’artista, tant’è che nel suo primo libro, ormai un classico, intitolato Sexy Robots, era l’illustrazione attraverso la quale Sorayama mostrava le fasi del suo lavoro; disegno leggerissimo e preciso, netto come un progetto tecnico, immaginatevi un architetto al lavoro sul corpo umano, un corpo che, per raggiungere il massimo realismo, viene copiato da una fotografia (nel caso specifico si trattava della copertina di Genesis, una delle riviste cosiddette “per soli uomini”). Poi, in grigio, Sorayama dipinge il chiaroscuro modellando i giusti volumi, che vengono coperti da colori acrilici molto diluiti; successivamente ritocca ad aerografo un po’ dappertutto, con il caratteristico effetto per il quale l’aerografo sembra nato, quello appunto delle lucenti superfici metalliche. In particolare vengono evidenziati i riflessi più accesi, laddove i bianchi splendenti creano aloni di luce diffusa. Anche in questo caso l’artista copia dalla realtà, prendendo come modello un’automobilina di ferro.

Sostanzialmente Sorayama aveva avuto una sola idea, talmente incisiva che si è potuto permettere di riproporla con infinite varianti per dieci anni: sostituire l’epidermide delle figure femminili con qualcosa di simile alle carrozzerie delle automobili. Automobili di lusso, Jaguar e Cadillac, tirate a lucido per l’Expo del 2019. Tra l’altro, gli aerografisti lo sanno bene, dipingere il metallo con i pennelli è operazione faticosa, ma con l’aerografo è tutto più semplice. Insomma, rappresentare il metallo può essere ben più efficace che rappresentare le pelle ed altrettanto attraente. Non solo, ma di queste signorine cibernetiche non si vedono neanche gli occhi, il volto è chiuso in un casco che lascia scoperta solo la bocca. Viene spontaneo l’accostamento con i personaggi dei dipinti dell’ artista di cui ci siamo occupati nel numero scorso di AAA, in questa stessa rubrica, Hans Ruedi Giger. Anche i suoi alieni hanno gli occhi catafratti dentro ad una celata tecno-medievale, dal cui interno supponiamo tutto sia visibile, e mostrano con evidenza la bocca; ma le bocche di Sorayama sono tutte labbra carnose, lisciate dai cosmetici ed invitanti (a volte c’è vicino anche un neo), quelle di Giger sono fameliche, con doppia dentatura retrattile che piomba a scatto sulle vittime come la lingua di un camaleonte sulle mosche. E’ singolare che entrambi gli illustratori spostino l’attenzione richiesta nei ritratti dagli occhi alla bocca(*). Certo qualche precedente illustre c’è stato (Edvard Munch, Salvador Dalì, Francis Bacon) ma la reiterazione del concetto non è così evidente. C’è anche da dire, sempre per contrasto con Giger, che il futuro ipotizzato da Sorayama è radioso, le robotesse non insinuano pericoli e suggeriscono la sottomissione senza alcun accenno alle minacce dei romanzi e dei film di fantascienza dove le macchine, troppo evolute, vogliono sostituirsi al loro creatore. Inoltre nelle mutazioni gigeriane il metallo diventa carne e marcisce, mentre in Sorayama è la carne a metallizzarsi diventando incorruttibile, bella in eterno. E forse la carta vincente dell’artista giapponese è stata proprio questa, l’inserirsi in un genere popolare – quello delle pin-up, dunque della rappresentazione della bellezza – rispettandone la tradizione (Gil Elvgren, Joyce Ballantyne, All Buell, per fare tre nomi, e potremmo andare avanti) ma proiettandone i soggetti nel futuro. Infatti, ancora secondo tradizione, Sorayama non mostra gli ambienti ed isola i soggetti (come faceva Alberto Vargas, eccolo il quarto nome, ed è quello a cui Sorayama si ispira di più). Eppure gli sfondi ce li immaginiamo benissimo, spiagge cosmiche con palmizi al titanio ed oceani di mercurio.

Ogni tanto, i soggetti delle illustrazioni diventano dinosauri, pesci, uccelli, sempre cibernetici. Per la Sony Sorayama ha progettato il design del cagnolino Aibo, un giocattolo che qualche anno fa si trovava esposto in negozio, ora al MoMA di New York. E nel 2009 è entrato in produzione limitata (500 pezzi numerati) per la ditta Kaws, un personaggio articolato della serie OriginalFake (No Future Companion), realizzato prima in metallo scuro poi in versione argentata.

Le tavole più recenti del nostro artista rivelano la voglia di spingersi un po’ più in la dell’erotismo dei robot e mostrano ragazze nude, del tutto umane, in pose hard e situazioni sadomaso. Eppure, anche nella resa delle fantasie più estreme, tra l’altro tipiche della cultura nipponica, Sorayama è di nuovo rassicurante; sono così pulite da perdere ogni parvenza di realtà, la violenza è negata dalla perfezione stilistica, la bellezza ideale dei greci viene inserita in un contesto di contorsioni fisiche da “shunga” (il filone erotico delle famose stampe giapponesi “ukiyo-e”) ma resta iperurania. Se c’è qualcosa che impressiona l’osservatore non è la scena, semmai l’abilità dell’illustratore. Non si può neanche parlare di donna oggetto, solo della visualizzazione di una fantasia astratta, senza crudeltà né perversione alcuna. Nonostante questi soggetti siano fortemente differenziati e mostrino, nello sguardo e nell’atteggiamento tutto, ognuno la sua psicologia, restano meno affascinanti dei robot.

Dicevamo, che di quelle illustrazioni con gli androidi si intuisce anche l’ambiente, che in vero non è stato dipinto; per tornare a casa dalle spiagge cosmiche si percorrono strade sopraelevate fiancheggiate da supermercati con le marche care alla media borghesia (non solo americana): Avon, Tupperware, Coca-Cola, Sony. Soprattutto Sony. Gli anni Ottanta di cui parlavamo all’inizio avevano come massimo immaginario futuribile l’Hi-Fi. I prodotti che più rappresentavano lo sviluppo tecnologico erano quelli specifici del suono, non dell’immagine. La tecnologia video era indietro rispetto a quella audio, le videocassette non competevano qualitativamente con gli ultimi dischi in vinile, figuriamoci con i primi compact disc. Si potevano creare immagini in digitale, ma erano primitive, i personal computer si chiamavano Commodore 64, Amiga 500 e Sinclair ZX Spectrum, riuscivano a disegnare solo a scale di pixel macroscopici ed avevano una gamma cromatica che si limitava a 16 colori. Insomma le donnine metalliche divennero le icone di un futuro tutto audio, e forse è per quello che non hanno occhi e sono dotate di antenne che escono dalle loro cavità auricolari. Oggi che il futuro è digitale e l’oggetto della perfezione tecnica è principalmente visivo, il blu-ray, non ci risulta che esista un illustratore così rappresentativo dei tempi da diventarne il portabandiera, come invece è stato per Sorayama.

(*) In quegli anni l’industria cinematografica produsse un film, diretto dal regista Paul Verhoeven, intitolato Robocop ; il protagonista era un poliziotto cyborg, versione maschile delle robottine di Sorayama, tutto d’acciaio e con la bocca unico elemento umano ancora visibile.

Nel vasto repertorio di libri contenenti illustrazioni di Sorayama si segnalano le seguenti monografie (tutte con testo giapponese, inglese o tedesco, purtroppo nessuna in italiano):

Sexy Robots, Genko-sha Publishing, Tokyo, 1983, formato in quarto con copertina in brossura.

Sorayama 1964- 1999 complete works , Shakuhin-Sha, Tokyo, 1999, in quarto, brossurato.

The gynoids – Genetically manipulated,  Pan Exotica, 1999, in quarto, in brossura.

The gynoids reborn, Pan Exotica, 2000, volume in folio, cartonato.

Venom: Hajime Sorayama, Genko-sha Publishing, Tokyo, 2004, volume in quarto cartonato con cofanetto.

 

Biografia:

Hajime Sorayama  è nato nella prefettura di Ehime, sull’isola giapponese di Shikoku, nel 1947. Disegna fin da bambino soggetti di natura metallica come navi ed aeroplani. Dopo aver frequentato la Shikoku Gakuin University, a vent’anni si iscrive alla Chuo Art School di Tokyo dove consegue il diploma. Inizia a lavorare come grafico per un’agenzia pubblicitaria ma dopo due anni passa all’attività di illustratore free-lance. Nel 1978 inventa i robot femmina che lo renderanno famoso e negli anni successivi sviluppa questi soggetti con molte variazioni sul tema. Successivamente passa ai Gynoids, parola che nasce dalla crasi di “gyne” (donna) ed “droid” (robot evoluto), in contrapposizione al termine consueto “android” che indica un robot di aspetto maschile. I Gynoids sono connotati come più umani rispetto ai precedenti Sexy Robots. Dal 1992 al 1995 viene coinvolto anche in campo cinematografico con Brain Dead, un delirante splatter comico di Peter Jackson (Sorayama realizza l’insospettabile manifesto per la versione giapponese del film), Time Cop ed infine Space Trucker , fantagrottesco di Stuart Gordon ( per il quale progetta il design del guerriero biomeccanico ). Nel 1999 il suo tecno giocattolo Aibo della Sony riceve numerosi premi e nel 2001 l’album degli Aerosmith Just Plush Play sfoggia in copertina un’illustrazione di Sorayama in cui si rende omaggio al mito di Marylin Monroe, trasformata ovviamente in robot. Nel 2007 si è tenuta a Roma la sua prima personale italiana, Erotovision, ed è stato girato il documentario Sorayama Secrets Revealed, disponibile in DVD.

 

Apparso su AEROART ACTION n.2 del 2010




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