Jack – king of pop – Kirby

Ovvero come imparare da bambini alcune cose sull’arte leggendo fumetti.

Kirbycopertinadi Giorgio Perlini 

 

Dovrei aggiungere a questo articolo un secondo sottotitolo: “Sempre che si abbia un padre critico ed illuminato”. Al mio, non mi stancherò mai pensarlo, debbo tutto quello che so a fare, sebbene lui sostenga che non è vero. Ma andiamo con ordine.

Da bambino non ero un grande amante dei supereroi. Preferivo altri lidi, lo stile morbido ed allegro di Paperino, la poetica geometria di Tintin, il colpo di polso istintivo di Luky Luke. In mezzo a queste opere così “alte” del fumetto c’ero finito non certo per merito mio ma per attenzioni paterne. Mio padre era un anomalo bancario dedito non al denaro bensì a quelle attività che coinvolgono lo spirito, tutte rigorosamente poco redditizie. Grazie alla tolleranza di mia madre papà trascorreva il tempo libero solitamente chiuso in casa trasformando le stanze in laboratori. Fondatore di cineclub, fotografo autarchico semiprofessionista, scultore di statuine caricaturali in terracotta, amava anche riprodurre ad olio i dipinti degli Impressionisti in una mimesi così perfetta che varie testate dell’epoca si erano interessate alle sue opere, prima tra tutte la Domenica del Corriere, che l’aveva intervistato ben due volte chiamandolo “il falsario gentiluomo” e mettendolo in posa con in mano una foresta di pennelli ( io ne andavo molto fiero).

Sono rimasto sostanzialmente coerente al bambino d’allora ma ho da poco acquistato una bella e partecipata biografia di un grande disegnatore di supereroi, Jack Kirby, scritta dal suo assistente Mark Evanier, e così subito dopo sono andato a cercare un vecchio albo gigante dell’editoriale Corno con la trasposizione a fumetti di 2001: Odissea nello spazio. Venne pubblicata nel 1977, credo in occasione della riedizione del film, e ho ri-scoperto che a dispetto di quanto sostenne lo stesso Kirby durante un’intervista – “un onore, anche se non particolarmente divertente”- l’albo è strepitoso. L’urlo in copertina lo annuncia come “il capolavoro di Jack Kirby” e forse a tanta spericolatezza da venditori corrisponde un giudizio casualmente azzeccato. Credo che questo albo si ponga come uno dei risultati più alti e meglio rappresentativi della Pop-Art. Credo vada ormai annoverato tra i classici anche se, “classico” non sarebbe in effetti il termine più appropriato. Di classico in Kirby c’è veramente poco. I suoi eroi sono tarchiati, e le eroine gommose, con i seni gonfiati su torsi mascolini, capigliature di plastica e cosmesi azzurra e rossa da film di serie B. Più bambole che donne. Nell’albo compaiono anche degli animali come lo smilodonte, in lotta con i progenitori dell’uomo. Per chi ama i fumetti è inevitabile pensare ad altri felini feroci, tigri o pantere che siano, incontrate nel corso di peregrinazioni cartacee, e scatta immediato un confronto con le belve nel Tarzan di Burne Hogarth (tanto per dirne uno). Ma quelle di Kirby, sebbene rivelino una inequivocabile ferocia, risultano goffe, effetti speciali non riusciti. E non solo perché Hogarth è così bravo che nessuno reggerebbe il paragone con lui, bensì per una scelta stilistica consapevole e ponderata; Kirby disegna alla velocità giusta per produrre un numero sufficiente di tavole al mese e setta le caratteristiche del suo stile sul parametro “tempo a disposizione”. Anche gli ominidi sono piuttosto meccanici, sicuramente meno credibili di quelli del film. Da quelle tavole aspre ci si aspetterebbe di veder sbucare Godzilla perché la fantascienza kirbyana non è decisamente quella di Kubrick. Il risultato dell’operazione di marketing che unisce i medium cinema e fumetto ha alla base la trasformazione dell’opera forse più cervellotica dell’intera produzione di un regista sempre molto intellettuale in qualcosa che scenda verso il grosso pubblico. Perché il film piacque moltissimo alla critica ma poco agli spettatori “non addetti” ( in terza di copertina la postfazione dell’albo, anonima, recita in un concentrato di bugie “Questa edizione è una fedele trasposizione del classico film che ha entusiasmato milioni di spettatori”). Kirby compie il miracolo di rendere Kubrick fruibile anche ai bambini. Come tutti gli artisti dotati di forte personalità interpreta fino a tradire ma, dicevamo prima, è cosciente di ciò che sta facendo. Quando Dino Battaglia trasporta Poe ed Hoffann in fumetto compie un’operazione che trasforma ma allo stesso tempo conserva, così come quando Sergio Toppi rilegge Le mille ed una notte; infatti le loro cosiddette “riduzioni a fumetti” non riducono proprio niente, potremmo anzi dire che aggiungono molto all’originale, pur restando fedeli allo spirito dell’opera e forse anche allo stile. Kirby impone se stesso, forte del fatto che la sua imposizione non può non riscuotere successo. I colori piatti e sgargianti ed in certi casi anche assurdi, dovuti più alla meccanizzazione fotolito che alle indicazioni dell’autore, completano il lavoro conferendogli l’aspetto del prodotto perfetto, luminoso come la moto nuova, mi immagino le copie esposte nelle vetrinette a trasformare le edicole in supermercati della carta. E mi meraviglio che ai nostri giorni, in epoca di riedizioni continue – e spesso superflue – nessuna operazione commerciale l’abbia ancora riproposto in carta super lusso, copertina cartonata, cofanetto in tiratura limitata, così da poter arrivare ad un prezzo più spaziale del titolo per veder finire poche copie a casa di collezionisti facoltosi e le altre paradossalmente al macero. Tra i punti di forza dell’edizione Corno invece c’era proprio l’attestarsi su di un costo contenuto, 1500 lire, che per il formato gigante erano più che giustificabili. Anzi, la forza pop dell’albo era proprio lì, nel poter essere acquistato perfino dai ragazzini. Voglio dire che è anche la sua veste editoriale, pagine di carta di poco pregio ma grandi da enfatizzare il disegno e brossura pericolosamente spaginabile, a farne un oggetto pop. L’incrocio improbabile tra una strenna ed una rivista pulp, decisamente abbordabile. Infatti un amico lo comperò, me lo prestò, ed io lo passai a mio padre. Come poteva lui tollerare un tradimento perpetrato con un’iconografia che ai suoi occhi doveva apparire come un’apologia della volgarità made in USA? Come poteva, lui che mi presentava Alter Alter, accettare che io, figlio scellerato, ricambiassi propinandogli quella versione di 2001: Odissea nello spazio o, peggio ancora, Kamandi e Gli Eterni? Lui così legato alle prelibatezze del Belgio e della Francia da Hergè a Moebius, sfogliò quel fumetto titubante e poi sentenziò un’espressione di diniego che non ricordo troppo bene se non per il fatto che conteneva un vocabolo per me ancora sconosciuto, “xilografie”. Mi spiegò, all’epoca non approvai, ma col senno di poi so che aveva ragione lui, come sempre. Lo stile di Kirby assomiglia maledettamente a quelle immagini popolari piuttosto grezze usate nel medioevo per diffondere il culto. I rigoni neri di contorno stesi allargando il pennello sembrano proprio i segni slabbrati lasciati dal legno inchiostrato, l’assenza di graffi sottili elimina drasticamente i mezzi toni; Kirby cancellava l’eredità di patroni del fumetto americano come Raymond e Foster, e questo, considerando che papà era cresciuto con le pubblicazioni Nerbini e col Vittorioso, era decisamente uno scandalo. Per non parlare delle rigidità anatomiche, le movenze legnose da marionetta, la dita tagliate con la squadra, le bocche troppo larghe estese fino ai margini del volto, gli occhi fissi inespressivi che rendevano i volti tutti uguali. Ma ciò che mio padre, troppo raffinato, non riusciva a capire, era che la bellezza del disegno di Kirby risiedeva proprio nel suo essere “brutto”. Dalla semplicità ruvida di quei personaggi emergeva una carica espressiva straordinaria, che faceva di Kirby uno dei disegnatori più originali di tutto il sistema supereroistico; se papà avesse fatto copie di Kirchner al posto di Monet, forse sarebbe stato più clemente. Kirby risultava inconfondibile e richiestissimo, ogni lettore sperava, acquistando la rivista, che all’interno ci fosse una storia disegnata da lui.

Ma c’erano un sacco di cose da sapere per capire bene i supereroi e per farlo bisognava soffermarsi sulla splash-page. Per esempio imparai che “Giecchirbi” aveva un nome ed un cognome, e forse proprio per non confondere chi come me non lo conosceva bene, le sue generalità venivano separate inframezzandovi  “king”. Dalla prima pagina di quei giornalini, così ricca di informazioni che pure non scioglievano tutti gli enigmi e anzi ne creavano degli altri ( cos’era un “supervisore”? Un altro supereroe con la vista alla kriptonite come l’uomo d’acciaio? ) imparai anche l’esatta crittografia di “Stanlì”, e soprattutto capii che non era colui che disegnava ogni personaggio, come avevo sentito dire dai miei compagni (“quelli Marvel li fa tutti Stanlì, non Marvel”). Inoltre doveva essere più umile del Monarca Kirby, visto che si fregiava di un titolo poco altisonante come “the man”.

Dato che in apertura di ogni storia di supereroi c’era una così partecipata celebrazione della combriccola di allegri e creativi collaboratori mi chiedevo perché nei fumetti di “Valdisni” ci fosse un solo nome tutelare, Walt Disney, appunto. Lui che faceva tutto da solo, lui sì che avrebbe potuto firmarsi “Walt – the God – Disney”, altro che Stanlì. Crescendo seppi che non era così, fu sempre mio padre – che storceva la bocca ogni volta ma intanto dava informazioni nuove – a spiegarmelo, e mi spiegò anche cosa fosse un “supervisore”, ma facevo fatica a capire, non riuscivo ad immaginarmi qualcuno che bacchettava sceneggiature e disegni come facevano i maestri coi compiti di noi scolari. Allora mi disse che un supervisore era uno come Walt Disney, e fu subito tutto chiaro. Nel frattempo imparai la questione “inchiostratore”, nient’affatto secondaria: sì, insomma, non volevo crederci ma i supereroi qualcuno li faceva a matita e qualcun altro li ripassava a china. Esistevano dei ripassatori! Mike Royer e Joe Sinnot erano, secondo me, quelli che ripassavano meglio. “Tu però, se vuoi disegnare, impara a fare tutto da solo come Hogarth, quello di Tarzan” diceva mio padre.

Anche 2001 Odissea nello spazio è inchiostrato da un altro (Frank Giacoia), e questa divisione di ruoli è tipica della produzione seriale, ma un’opera d’arte non può essere fatta in serie, a meno che non si voglia ammettere che il fumetto non è arte (opzione ridicola), oppure che lo si confini, appunto, dentro la pop-art.

Mi domando spesso se i fumetti siano pop o se lo sia solo la loro riproposizione all’interno dei dipinti di Lichtenstein. Per quanto mi riguarda non sono pop alcuni artisti che hanno usato il fumetto come mezzo espressivo; non è pop Bilal, non lo è Dave McKean, né Neal Adams o i citati Toppi e Battaglia. Ma se penso a Kirby, allora le cose cambiano. Kirby risolve il problema, lui è decisamente anche più pop di Lichtenstein, le cui tele risultano tristi con quegli ingrandimenti pedissequi che rendono sterile ogni segno, l’onomatopea senza più vitalità sonora, l’estrapolazione dal flusso temporale ingiustificata e traditrice. La civiltà che ha prodotto la pop-art è felice, o meglio, è convinta di esserlo. Questo è uno degli insegnamenti del cattivo maestro Warhol (ecco da dove deriva la pacchiana cosmesi blu e rossa delle eroine di cui sopra, dai celebri ritratti di Marylin), ma solo chi ha disegnato qualcosa che andasse direttamente incontro ai desideri delle masse evitando citazioni e riletture, comprensibile senza l’uso di grimaldelli ermeneutici, come Kirby, sembra averlo compreso.

L’impatto dirompente delle sue tavole era, e resta, veramente una gioia per gli occhi di tutti, tranne quelli reticenti alla corruzione del bello, quelli di mio padre.

 

 

Jack Kirby, 2001: Odissea nello spazio, editoriale Corno, supplemento a Capitan America n.110, giugno 1977, albo brossurato a colori, formato in folio, 80 pagine.

 




Commenti

  1. 01. Giuliano

    abbiamo parlato proprio di queste cose, nel mio studio, parecchio tempo fa…


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