L’arte cortese di John Ireland

Poetica di un artista al servizio di un prodotto.

Irelandcopertinadi Giorgio Perlini

Tra le ditte produttrici di birra l’irlandese Guinness si è storicamente distinta per campagne pubblicitarie che prevedevano la distribuzione di gadget diventati quasi subito oggetti di collezionismo. Tra i più deliziosi figura il calendario del 1981, difficile da reperire intero ed in buone condizioni, ristampato in tavole sciolte racchiuse in cartella e perfino edito sottoforma di un’unica lamina metallica con le illustrazioni sbalzate. E’ opera di un artista poco noto, che si firma John Ireland, e forse non si tratta di uno pseudonimo. Ireland dipinse dodici immagini ad acquerello (più copertina a china) meditando sulla lezione di due grandi personaggi del passato, Heath Robinson e Rube Goldberg, l’uno londinese e l’altro di San Francisco, accomunati dalla medesima passione per l’invenzione grafica di macchinari assurdi, al punto che rispettivamente in Inghilterra e negli Stati Uniti i loro nomi sono diventati sinonimi di “meccanismo complicatissimo ed inutile”. In particolare, il successo delle creazioni di Goldberg fu tale che negli anni Sessanta una ditta di modellismo plastico decise mettere in produzione i “Rube Goldberg’s Animated Hobby Kit”, scatole di montaggio per la costruzione di macchinari ideati per compiere operazioni elementari (come cullare un bambino o togliersi il cappello prima di fare il bagno) attraversando fasi pazzesche che necessitano di armi da fuoco, scimmie tropicali, ballerine hawaiane, e quanto di più impensabile.

John Ireland si pone dunque come il degno erede dei due suddetti maestri e realizza un calendario splendido. La ricorrenza sembra essere il centenario dell’anno 1881, durante il quale la Guinness raggiunse il traguardo di un milione di barili prodotti, ma per riportare il fuoco sul fattore qualitativo il calendario si intitola The Gentle Art of Making Guinness.

Ed è realmente attraverso una sua propria “gentle art” che Ireland evoca tutte le fasi della produzione delle birra, con segni e colori di leggerezza e precisione da miniatore di codici armato non solo di pazienza ma anche di lenti d’ingrandimento, per rendere tutta l’eleganza inventata con cui ci mostra operai sotto le spoglie di artigiani che lavorano – ma sarebbe più adatto dire “creano” – in una sede che ha il sapore del cottage o della manor, non certo della fabbrica. E si celebra così la campagna irlandese con le sue spighe auree di orzo, e anche il paesaggio circostante fino all’oceano con lo strapiombo di scogliere come quelle di Moher passate attraverso il filtro di Tolkien. Ma non si cede alla tentazione fantasy, è necessario fingere di essere concreti, come se la Guinness venisse realmente prodotta come Ireland ci racconta. Dunque ecco qualcuno che raccoglie il luppolo facendolo passare dentro ad una delle gambe di un paio di pantaloni trasformati in imbuto, qualcuno che spinge calamite per spostare degli innaffiatoi metallici per mantenere l’orzo fresco, qualcuno che distilla il malto facendolo passare attraverso una serie di diaframmi che comprendono una racchetta da tennis, uno scolapasta ed un fazzoletto, con esaltazione di tanti imprescindibili piccoli singoli che compiono operazioni lente, le quali confluiscono in qualcosa di grande e perfetto che collasserebbe se uno solo dei componenti non svolgesse il lavoro a puntino. C’è un’ironia straordinariamente britannica in queste tavole, che vuole che tutto sia disposto secondo un ordine cosmico laddove ci si aspetterebbe una certa confusione: Il medioevo fantastico di Baltrusaitis costretto dentro alle incisioni enciclopediche di Diderot e d’Alembert. Tutti gli operai-artigiani hanno l’aria compassata, in certi casi solenne proprio mentre svolgono funzioni ridicole, e sono vestiti coi panciotti di tweed, magari rattoppati con la cura di femminili mani domestiche, quelle stesse che hanno provveduto a riempire loro i cestini di vimini intrecciato con la colazione, fatta di tè con la fetta di torta. A pranzo invece si beve della Guinness, anche quella fa capolino dalla cesta. Se guardiamo bene le mani di questi operai-artigiani notiamo che non hanno niente di ruvido e anche quando sono grassocce alzano un mignolo sibarita assumendo posture e movenze della mimica di quel comico straordinario che è stato Oliver Hardy. L’inquadratura, spesso prospettica, spettacolarizza la situazione già di per sé complessa, e stabilisce con i “lettori” una complicità sottile richiedendo loro qualcosa che va oltre la fruizione mediamente passiva di un’illustrazione. Lo spettatore deve intervenire seguendo la logica fantastica di quelle macchine, a partire dal personaggio che sembra essere l’origine della catena e seguendo gli anelli uno dopo l’altro, trovando le connessioni folli fino alla conclusione del sistema, come in un libro di labirinti grafici all’interno dei quali bisogna cercare la via d’uscita tracciando i tortuosi percorsi col dito. Perché a colpo d’occhio l’immagine non si spiega, va effettuata una operazione analitica per comprendere. Solo così i dettagli acquisiscono la loro importanza ai fini del tutto, e lo spettatore dedica il suo tempo, con piacere e soddisfazione, alle figure che vanno non solo guardate ma anche capite. Questa richiesta di tempo è un’operazione straordinaria in quanto suggerisce anche ai profani quanto lavoro, dunque tempo, abbia richiesto l’esecuzione della tavola. La fruizione veloce e finanche distratta del medium fumetto rallenta e quasi si blocca nell’illustrazione, che pure gli è sorella. Il tempo che il fumetto ruba al lettore è, appunto, tempo richiesto dalle parole più che dai disegni. Qui le tavole sono mute eppure dicono tutto, ma solo se si è disposti a concedere loro minuti ben spesi, ricambiando così il tempo dedicato dall’autore al nostro piacere di spettatori. E sempre osservando ci si rende anche conto che Ireland, a differenza dei suoi due predecessori, non bara; non simula false profondità ingannando con ombreggiature abbozzate come fa Goldberg, le si potrebbe realmente costruire le sue macchine se si fosse tanto folli da provarci. Non contemplano la presenza di ballerine con ukulele, richiedono solo oggetti familiari alle culture rurali, mozziconi di candela, scale a pioli, ombrelli, pedali sottratti a biciclette in disuso, falcetti, mantici da caminetto. E questo a ribadire l’artigianalità della produzione. Tre tavole in particolare mi sembrano fondamentali. Nell’illustrazione che corrisponde al mese di Aprile, dedicata alla tostatura dell’orzo, ottenuta facendo abbrustolire manciate di chicchi poggiati su piattini che passano in rotazione sopra candele accese, Ireland si autoritrae sotto le spoglie di un operaio. Avrebbe potuto, a questo punto, citare altri personaggi legati al disegno delle macchine, la caricatura di Leonardo da Vinci, per esempio, sarebbe stata gustosamente pertinente e anche facilmente riconoscibile; ci sarebbe stato benissimo anche Marcel Duchamp, con la pipa in bocca oppure sotto le spoglie del suo alterego Rrose Selavy, magari al pub. Ed invece l’amore incontrastato per la storia della stessa disciplina dentro la quale Ireland sta operando, cioè l’illustrazione, lo porta a ritrarre vicino a se stesso Heath Robinson e la soddisfazione è sicuramente impagabile, l’arte può annullare le distanze temporali.

Per il mese di Settembre un ordinato corteo di operai attraversa in serpentina, sorreggendo con cura delle bottiglie pronte, l’ufficio del dottor. Guinness, per poggiare suddette bottiglie su di un cuscino. Il capo, vestito di tutto punto, da dietro alla scrivania firma le bottiglie sull’etichetta, una per una, con l’inchiostro rosso. Nella stanza ogni oggetto riconduce alla birra; a terra c’è il tappeto con l’effige dell’arpa celtica, sulla colonna se ne stanno appoggiati bottiglia e boccale come fossero sculture, e sullo scrittoio campeggia l’abat-jour col celebre tucano di Gilroy. Dopo la distribuzione di bottiglie e fusti paracadutati da un piccolo dirigibile pure a forma di bottiglia (mese di Novembre) il calendario si conclude con un’immagine dove si vede un cliente che ordina da bere all’interno di un pub. E perfino ora, nel semplice momento della bevuta, si aziona un meccanismo artigianale e preciso. La pressione che esercita l’avventore sul seggiolino serve a far uscire la birra dalla spina, con evidente soddisfazione di gestore e cliente, dalle facce composte ma sorridenti.

L’operazione di decantare le qualità del prodotto attraverso un oggetto comune come il calendario si giustifica sia perché si vuol far passare il messaggio che la Guinness è “comune” nell’accezione di nota, dunque celebre, sia perché tale calendario, a differenza di contemporanei e diffusi esempi volgari, o quantomeno sciatti, viene concepito in modo raffinatissimo. Sicuramente uno dei più originali mai visti.

 

Apparso sul n.3 del magazine on line NONSOLOBIONDE.IT (2013)

 




Commenti

  1. 01. Joel King

    My aunty has this set and would like to know it’s value, if anyone knows, please post on here.

  2. 02. Giorgio Perlini

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    Giorgio


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