Misteri indescrivibili

Edward Gorey e l’arte del non mostrare

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di Giorgio Perlini

Questa sezione del sito si apre con un doppio omaggio ad un disegnatore sibillino, scomparso nel 2000 e di cui sono state raccontate (in inglese) tante bizzarrie sul suo modo di vivere, vestirsi, sulle sue ossessioni collezionistiche ed anche sulla sua identità sessuale. Nessuno però è mai riuscito a capire fino in fondo i suoi disegni. Si chiamava Edward Gorey, era di Chicago (1925) ed è l’autore di circa un centinaio di libri tra cui spiccano due pop-up ben congegnati. Il primo è The dwindling party, edito dall’inglese Heinemann nel 1982, un pezzo raro e costoso; la storia ha insolitamente inizio sulla copertina (e se non fosse tutto all’insegna dell’insolito non sarebbe una storia di Gorey), dove uno pseudo cartiglio racconta che la famiglia MacFizzet (due genitori e cinque figli) si reca in visita al parco di Hickyacket. Nei cinque pop-up seguenti, tutti su pagina doppia, i membri della famiglia scompaiono uno ad uno, e in quarta di copertina, con la chiusura del libro, esce dal parco il piccolo Neville, unico superstite sotto la luna. Il libro è realizzato con il solito umorismo nero e senza morale di Gorey, impreziosito dalle figure in rilievo stampate anche sul lato posteriore.

L’altro è Edward Gorey’s Dracula – a Toy Theatre dell’americana Pomegranate, senza data ma edito postumo verosimilmente nel 2007, ancora più spettacolare del primo e reperibile on line a cifre decisamente ragionevoli, probabilmente perché stampato in gran numero di copie. Trattasi non proprio di un racconto ma di un teatrino riproducente la messa in scena della piece Dracula, prodotta a Broadway, le cui scenografie e costumi vennero realizzati dall’artista. All’interno della confezione sono contenuti i fondali per tre diversi ambienti ( la biblioteca di Seward, la camera di Lucy, la cripta), tre fogli plancia per il mobilio – sarcofago compreso – ed altri tre con le fustelle di quindici personaggi e relativi piedistalli, il tutto in cartoncino. La confezione è corredata da un booklet di quattro pagine con la traccia dello spettacolo. Spero che le fotografie rendano giustizia ai due “libri” e per l’impossibile commento al disegnatore vado a ripescare un articolo che scrissi nel 1995 e che mi sembra ancora vagamente efficace, per quello che si possa considerare tale qualunque tentativo di spiegazione dell’autore. Lo scrissi per una fanzine chiamata Flex in occasione della comparsa nelle librerie di L’ospite sgradito ed altri 12 racconti di umorismo nero per i tipi della Bur. All’epoca Gorey era in Italia pressoché sconosciuto e l’unico precedente era costituito dalla Trilogia edita dalla Milano Libri nel 1973.

 

Edward Gorey è uno di quei perso­naggi il cui lavoro non può essere descritto. Leggere – e soprattutto guardare – le sue storie per credere. Con pazienza certosina riempie fogli interi di trattini neri, a china, che più o meno compatti danno forma ai personaggi e, maggior­mente, agli ambienti che li ospita­no. I luoghi, infatti, sono più im­portanti delle azioni che vi si svol­gono, poiché lasciano intuire che c’è qualcosa che bisognerebbe sape­re per poter capire bene, ma questo qualcosa a noi osservatori è negato. Guardando le “storie a vignette” – chiamiamole così – di Gorey si ha la stessa sensa­zione che si prova leggendo Turn of the screw (Il giro di vite) di Henry James; tutto si gioca sul non detto, sul dualismo presenza-assen­za, e quando sembra di avere indo­vinato alcuni elementi per risolvere gli enigmi, è sufficiente un nuovo accenno inaspettato per far sfuggi­re ancora il senso di tutto. Nonsense? Non proprio, piuttosto surrealismo, di quello macabro. In Le passamenteries horribles Gorey disegna delle passamanerie di dimensioni giganti che minacciano, spiano, sovrastano, inseguono uma­ni ed animali, indifesi e spa­ventati. Lo stupido scherzo ci mostra il letto di un bambino e tutte le figure dei familiari – sempre di spalle – che gli girano intorno, fin­ché il letto diventa catafalco e poi tomba alata, con un invenzione gra­fica bellissima, per tornare poi letto dopo il volo, ma senza più il bam­bino. I piccoli di Gashlycrumb, protetti – si fa per dire – dall’ombrello della morte nella “splash-page” della sto­ria, sono sistemati in ordine alfabetico – da Amy fino a Zilliah – uno per ogni lettera, e raffigurati unicamente nel momen­to della loro morte assurda. La filastrocca si chiude su se stessa con un immagine pendant a quella d’aper­tura, con una serie di lapidi rag­gruppate. Per bizzarria, suggestio­ne e raffinatezza grafica, questo limerick è forse il capolavoro di Edward Gorey: valgano, per tut­te, due vignette, una a pag. 73 (in alto) e una a pag. 76 (in basso), dove i due piccoli personaggi ven­gono inghiottiti dall’ambiente cir­costante, reso vivo da quel tratteg­gio discontinuo, caratteristico pe­raltro anche di un altro grande illu­stre del macabro, Berni Wrightson, che se pur stilisticamente lontanissimo da Edward Gorey in certe soluzioni gli assomiglia molto. Riguardatela, la vignetta di pag. 76, e se conosce­te il Frankenstein di Wrightson vi sembrerà di averla già vista. Gli ambienti prediletti da Gorey, tra il Vittoriano ed il Déco, mostra­no superfici (legno, marmo, mattoni, carte da parati) smaterializzate ed effimere come quinte teatrali ed atmosfere paradossalmente tattili, con l’aria e la nebbia che si muovono, e la foschia che può es­sere penetrata, così come il buio. Quest’ultimo è protagonista indiscusso di tutte le storie (eseguite, pensate, a partire dal 1952), appare costantemente negli angoli, dietro le porte semiaperte, infilato nei sottoscala a nascondere qualcosa che dovrem­mo vedere per poter conoscere.  Ed  invece, il tratteggio diventa cosi fitto da non lasciar vedere nien­te, se non che quel buio stesso è animato, percorso da un flusso serpentino iconograficamente (ed anche temporalmente) collocato tra le descrizioni dickensiane delle volute di fumo della rivoluzione industriale e le correnti elettriche di Nikola Tesla. E per tentare – invano – di capire, ci attacchiamo a bigliettini trovati sul parquet, ombre proiettate sul muro da nessun individuo, nicchie rimaste vuote, scale che salgono non si sa fin dove, ectoplasmi percepiti in antichi dipinti, specchi – piatti, dun­que in Gorey profondissimi – che mostrano aperture riflesse con qual­cuno-qualcosa che sta entrando-­uscendo, presenze impalpabili al di fuori di vetri appannati, oscuri oggetti intravisti dietro i meandri di un corridoio. Gorey si diverte a creare il mistero con l’assenza e con l’atte­sa, e ci riesce benissimo. E così facendo stimola le nostre proiezio­ni su ciò che volutamente ha lasciato confuso ed incompleto. L’osserva­tore diventa parte integrante del processo artistico (non è una novi­tà, molti grandi tra cui Leonardo da Vinci e Gia­como Leopardi operavano allo stesso modo), ecco perché ci sembra di vedere fantasmi e sciarade grafiche ovun­que. Ed il buio “vive” proprio perché non è compatto, ma ottenuto ad intreccio, lasciando puntini bian­chi che lo fanno vibrare. Che dire ancora di un artista di cui non si riesce a parlare (e di cui anche le notizie biografiche sono avvolte dal mistero)? Che i suoi burattini spettrali hanno sicuramente influenzato il cinema di Tim Burton, in particolare lo strepitoso Nightmare before Christmas ? (Vedere pag. 25 e pag. 69). Che le sue inquadrature da romantico, paradossalmente attrat­to dal Settecento, ritornano ne I misteri del giardino di Compton House di Peter Greenaway, e che anche lo spirito macabro è lo stesso? Forse. Ma concedetemi un ultimo tentativo di “descrizione” per chi non è in possesso del libro e non è riuscito – a ragione – a capire dalle mie parole di cosa si tratti. Farò appello ad una sorta di memoria collettiva. Avete presenti quei servizi di ceramica inglese che i nonni estraggono dalla credenza in occasione delle feste natalizie? Quelli con le immagini stampate in litografie marroni, a volte azzurre, sul fondo del piatto, che man mano che mangiate i tortellini compare il querceto, poi si vede l’ansa del fiume, un altro boccone e si rivela il castello, l’ultimo cucchiaio ed ecco una figurina pallida, leggera come uno spettro. Ecco, credo che  la sensazione di irrisolta meraviglia che si prova in quel frangente sia la più vicina allo stato d’animo suscitato dalla lettura-visione delle storie di Edward Gorey.

 

Aggiungo una brevissima nota a diciotto anni di distanza. Gorey è stato celebrato nel 2009 con una grande mostra itinerante, voluta dal Brandywine River Museum della Pennsylvania. In Italia la mostra non è giunta ma è stato tradotto il catalogo, edito dalla Logos. Vi figurano anche inediti, acquerelli, buste da lettera dipinte, bozzetti per costumi e scenografie. Sfogliandolo mi sento di confermare quanto scritto sopra, trovo una fortissima equivalenza tra Gorey ed Henry James. Ma il primo è dotato di un sense of humour che credo piaccia anche ai bambini; forse non colgono a pieno l’ironia degli avvenimenti ma sono divertiti da quel disegno da cartone animato che dovrebbe mascherare la crudeltà delle situazioni in cui cadono gli inamidati protagonisti. Tutto si muove a passo di danza, tutto è costruito in modo elegante, e si intuisce fin dall’inizio che in punta di piedi, su scarpette nere, arriverà anche la morte.




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