Splendori e miserie della birra nell’immaginario del XX secolo.

Parte II: Dopo la Guerra la birra fa buon sangue. La nobile bevanda diventa nazional popolare.

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di Giorgio Perlini

Dalla grande guerra si uscì, che dir si voglia, tutti piuttosto acciaccati, anche i vincitori. Ci si riprese con intraprendenza ma lentamente. La propaganda post bellica fece leva sullo spirito di rinascita e le affissioni pubblicitarie mutarono il loro linguaggio seduttivo. Il dramma mondiale aveva cambiato la società, le classi sociali, gli stili di vita, le mode. I prodotti di consumo si erano adeguati diventando semplici, economici, comodi. S’era persa quell’ esibizione di bellezza un po’ arrogante degli anni del Liberty. L’immagine aristocratica si stava trasformando in qualcosa di più domestico; lo specchio del nobile e sogno del borghese andava in frantumi sostituito da modelli di vita quotidiana poco mondana.  Non si proponeva più ciò che veniva desiderato bensì ciò che si era. E la birra prese la connotazione di bevanda salutare e corroborante, perfetta per i lavoratori di buona volontà. C’è un paese in cui essa divenne, per ovvie ragioni, il prodotto nazionalpopolare numero uno, ed il merito è dovuto in buona misura ad un illustratore. Come qualcuno avrà già intuito, il paese è l’Irlanda ed il prodotto è la Guinness. L’illustratore è John Gilroy, sconosciuto ai più nel nome ma autore di immagini celeberrime.

Gilroy iniziò a collaborare per l’agenzia pubblicitaria Benson’s nel 1925 e quando questa vinse l’appalto per le campagne promozionali della Guinness Gilroy venne immediatamente coinvolto. Nel 1930 apparvero i primi, efficacissimi, manifesti. Il motto fu all’inizio “ Guinness is good for you” e si rivelò vincente, ma nonostante questo venne variato nel corso degli anni, diventando “Guinness for strength”, “Lovely day for a Guinness”, “ My Goodness my Guinness” che in periodo natalizio divenne “ My Goodness my Christmas Guinness” e “ Have a Guinness when you are tired”, mostrando coraggio ed inventiva. Si tratta sempre di frasi semplici abbinate ad immagini molto colorate, dove personaggi di forte plasticità si ritagliano su fondo bianco. Tali personaggi risultano essere oggetti inanimati – quali boccali di birra resi antropomorfi – oppure uomini al lavoro, ma i più famosi restano gli animali fuggiaschi di uno zoo ed il loro guardiano, disperato non solo per l’evasione ma anche perché gli animali gli hanno rubato la birra. Gli elementi che contribuirono al successo di queste campagne pubblicitarie si riscontrano, oltre nella già citata incisività del motto, nella rappresentazione dell’uomo comune, tirato in ballo nella sua attività lavorativa svolta con solerzia ed impegno, anche quando si trova coinvolto in situazioni drammatiche. Il dramma viene infatti ribaltato in ironia, il pennello di Gilroy vira tutto in immagine buffa, rendendo ogni situazione estremamente simpatica. Al punto che tra le fonti di ispirazione dell’artista figurano chiaramente i cartoni animati, ai quali egli può aggiungere, lavorando su immagini fisse, una ricca gamma di sfumature di colore che fanno apparire i protagonisti quasi tridimensionali, non tanto dei disegni animati ma dei pupazzi animati. Inoltre, usare questo linguaggio, vuol dire rivolgere il messaggio anche ad una fascia di pubblico che non può essere quella per cui il prodotto viene realizzato. E proprio qui sta una delle più geniali trovate di Gilroy (e probabilmente del suo copywriter). Insomma quei manifesti ebbero grande presa sui bambini, che non erano, ed ovviamente non sono, dei bevitori di birra. L’immagine gioiosa che proponevano restava nella loro memoria, e quando vedevano il papà bere la Guinness si sentivano soddisfatti. La Guinness dunque si piazzò, grazie a quei manifesti, come prodotto sì “da grandi” ma che poteva comparire sul desco con tutta la famiglia riunita. Sfruttando questa intuizione la ditta realizzò dei pamphlet con storielle per l’infanzia che vennero distribuiti come gadget. Diede inizio alla serie “The Guinness Alice” del 1933, e negli anni a seguire giunsero “The Guinness legends and other verses”, “Jabberwocky re-verses”, “Songs of our grandfathers”, “A Guinness scrapbook”, “Alice aforethought” e “Prodigies and prodigals” con il quale ebbe fine la prima collezione a cadenza annuale che riprese nel 1950 con “A Guinness portfolio” e proseguì fino al 1966, per un totale di ventiquattro albetti riccamente illustrati. La prima serie, che rende tributo a Lewis Carroll ed alla sua immortale bambina, venne affidata a Gilroy e riscosse l’aspettato successo scomparendo presto dalla circolazione e diventando oggetto per collezionisti. A dir la verità, tutte le immagini Guinness di Gilroy sono ricercate, ed essendo state ristampate innumerevoli volte per fini esclusivamente pubblicitari quando ancora non erano oggetto di culto, rendono arduo il reperimento degli originali.

Gilroy lavorò per la ditta di birra fino alla metà degli anni Sessanta, realizzando nei trentacinque anni di attività circa cinquanta manifesti. I soggetti continuarono ad essere operai, meccanici, contadini, falegnami, soldati, circensi, e l’immancabile guardiano dello zoo, la celebrità del quale condusse spesso a poster autocelebrativi dove lo stesso personaggio, oramai icona, si esibiva in ruoli differenti, riconoscibile anche senza la divisa per la sua silhouette tracagnotta e quel viso baffuto e stempiato, con una ciocca di capelli superstite al centro della testa. C’è uno di questi manifesti che potremmo vedere come l’emblema di tutto il lavoro svolto dall’artista. Vi si vede un uomo sul letto, che si risveglia eccitato per aver trovato una sorpresa: dalla calza appesa con tanto di rametto di vischio al pomello del letto fa capolino la bottiglia del desiderio. Sul pomello dirimpetto è appeso il cappello da guardiano e sulla parete l’effige del famoso struzzo – che nei manifesti precedenti veniva inseguito per aver ingurgitato un boccale di birra tutto intero – dal collo ancora sagomato col suddetto boccale. I dettagli, pochi, sono tutti giustificati, comprese le righe del pigiama, del colore della divisa. Lo slogan che completa l’immagine è “My Goodness my Christmas Guinness”. Praticamente Gilroy ha riassunto un’intera storia in una sola immagine, decretandone anche una conclusione, e dando per sottinteso ciò che tutti i sudditi di Sua Maestà Giorgio VI conoscevano relativamente ai testimonial della Guinness. Finali alternativi sono proposti da altri manifesti in cui il guardiano è riuscito nell’impresa di riunire tutti gli animali evasi, e troneggia, riappropriatosi della bevanda, attorniato come un bonario sovrano. Ecco avverarsi la doppia profezia di Leonetto Cappiello di cui si parlava nel primo articolo della serie, vi ricordate? (La pubblicità della birra deve essere associata all’allegria ed il linguaggio deve andare incontro ad un pubblico vasto ed eterogeneo, non più racchiuso in una classe alta ma ormai identificato come “massa”). Le immagini di Gilroy riuscirono proprio in questo, convincere le masse. Lo stesso artista un giorno così commentò il suo operato: “L’uomo della strada non ha tempo per osservare a lungo. I miei manifesti propongono un genere di immagini che si coglie al volo”.

Eppure il livello artistico del lavoro di Gilroy è elevato, la derivazione dai cartoons non comportò mai un compromesso qualitativo dovuto a bassi fini commerciali, anzi rese evidenti le potenzialità espressive della cifra stilistica comico-grottesca. Il fattore traina il suo carretto con annesso cavallo stremato, il meccanico solleva l’automobile con un solo braccio per lavorarvi sotto senza martinetto, il boscaiolo abbatte la sequoia vibrando un solo colpo d’ascia. Considerando che negli anni Trenta apparvero in America i comics di Superman che poco dopo si imposero anche sul mercato del Regno Unito, ecco l’ironia di Gilroy che traslando il modello erculeo dal cosmonauta extraterrestre all’uomo comune ne trae un simpatico eroe proletario. L’assurdità insita nel personaggio Superman, incarnata nel lavoratore diventava quasi credibile, grazie alla comicità con cui il tutto veniva espresso. Nel campionario di protagonisti animaleschi ( ed è noto quanto gli animali umanizzati siano amati dai bambini e quanto siano stati utilizzati, a partire proprio dai manifesti di Gilroy degli anni Trenta, in pubblicità ), orso, tartaruga, coccodrillo, leone, struzzo, foca, si distingue un testimonial insolito come il tucano, la cui scelta si spiega solamente con la ricerca dell’originalità assoluta. Il tucano, volatile del Sud America dal caratteristico becco giallo di notevoli dimensioni, non ha niente a che vedere con l’Irlanda, né con altri paesi anglosassoni. Il contesto in cui viene concepito è quello zoo più volte citato, di cui diviene l’indiscusso leader (sorvegliante a parte) fino ad apparire solitario, volato via dalla gabbia per raggiungere ora le nuvole, ora le più basse vette costituite dai tetti di Dublino, trasportando il boccale di Guinness come farebbe una cicogna col bebè, ma col sospetto – anzi la certezza – dello spettatore che la bevanda non abbia un destinatario differente dallo stesso uccello postino, alla ricerca di un punto dove appollaiarsi per bere in santa pace immergendo il lungo becco come – ancora- la cicogna della favola di Esopo.

Così con le campagne di Gilroy per la Guinness cambiò l’immaginario della birra, che divenne bevanda popolare, da tavola, alternativa paritaria al vino. Questo piazzamento di una birra in realtà molto particolare quale è appunto la Guinness (stout nera, dal gusto amaro e dalla schiuma densa), segnò un passaggio storico e, come vedremo nei prossimi articoli, pressoché definitivo, tanto da imporre l’immagine su tutte le altre birre che seguirono la scia.

 

Apparso sul n.1 del magazine on line NONSOLOBIONDE.IT (2013)




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