Angosciante, maledetto, irresistibile Lynd Ward

Gods' man, fiore nero sbocciato dalla grande depressione.

Wardcopertina

 

di Giorgio Perlini

 

Uno dei motivi del piacere del libro illustrato ( e più ancora del fumetto ) è la doppia lettura che esso propone, quella testuale e quella visiva, a volte intrecciate e altre che procedono su binari paralleli, comunque aggiungendo l’una all’altra arricchimenti narrativi. Capita però di imbattersi in libri che di parole non fanno uso, quasi a negare l’essere stesso dell’oggetto, e non si tratta di elenchi di immagini come potrebbe essere un catalogo, bensì di libri che raccontano servendosi esclusivamente delle figure. Uno degli artisti che ha raggiunto il massimo in questo frangente – e ne è stato anche uno dei pionieri – è l’americano Lynd Ward. Sconosciuto in Italia (le sue opere non sono mai state edite nel bel paese) ma così noto in patria che esiste un ambito premio che riporta il suo nome destinato al miglior romanzo grafico, Ward ha realizzato i più inquietanti racconti senza parole dell’intera Storia del libro. Quando si sfoglia una delle opere di Ward si ha l’impressione di essersi imbattuti in uno di quei libri inesistenti intorno ai quali vengono scritti altri libri, di solito di tematica oscura, o girati film horror. Ward è nato a Boston nel 1905 e la sua produzione più interessante si colloca intorno agli anni Trenta. Siamo dunque nell’epoca del pessimismo dovuto alla grande depressione, quando perfino la ricca America si ritrovò a tremare davanti allo spettro della povertà. E siamo anche in ambito espressionista, quando gli artisti scoprirono che per criticare la società corrotta e descrivere le miserie umane si potevano usare pochi segni grossi e taglienti, neri come la filosofia che li determinava. In questo clima Ward crea il suo primo libro muto, intitolato Gods’ man (lì, nel titolo, le parole compaiono) risalente al 1929.

Negli anni seguenti Ward illustrò una serie di opere pressoché infinita di cui almeno tre meritano di essere ricordate: Madman Drum, una sorta di remake-variante di Gods’ man in cui un negriero sottrae con la violenza il tamburo ad uno schiavo, scoprendo in primis che l’oggetto conferisce potere economico al proprietario, poi che il suo possesso diventa una maledizione destinata a ricadere sui figli. Di lettura più difficile rispetto al libro precedente, ne approfondisce certe tematiche, confermando la poetica morale dell’autore. Poi, nel 1934, Ward illustra il Frankenstein di Mary Shelley, ed il risultato è straordinario, sicuramente una delle edizioni più belle del romanzo. Nel 1937 quando l’editore Andrew Lang decide di affidare a Ward le illustrazioni per l’antologia di racconti del mistero Haunted Ominbus appare un altro capolavoro, 60 immagini ottenute con una laboriosa tecnica inventata dallo stesso Ward per ottenere una insolita tipologia di sfumature atta ad essere riprodotta senza perdite qualitative anche con mezzi di stampa rudimentali. L’effetto è quasi l’opposto dei contrasti netti delle incisioni dei primi libri e dimostra tutta l’evoluzione di un artista che pur variando le tecniche resta sempre riconoscibilmente se stesso. Purtroppo il libro (per fortuna vorrebbe dire il bibliofilo orgoglioso che è in me, visto che ne possiedo una copia) non è mai stato ristampato; però in uno dei volumi che Gerry De La Ree dedica all’illustrazione fantasy (The art of the fantastic, tirato in sole 1200 copie) compare una sezione dove una cospicua parte di quelle immagini è stata riprodotta accuratamente fotografando gli originali non perduti. Il discorso su Haunted Omnibus meriterebbe uno spazio a parte e mi riservo di trovare, un giorno, l’occasione per approfondire.

Torniamo a Gods’ man. Date la difficoltà dell’epoca (la prima edizione del libro vede la luce giusto un mese dopo il crollo della borsa) il libro viene stampato in economia, formato piccolo (15 centimetri per 21), un volumetto dall’aspetto semplice eppure già misterioso dall’esterno con quel bianco e nero insistente, più nero che bianco, compreso il taglio superiore ed i risguardi. La copertina concilia la violenza dell’espressionismo con certe raffinatezze art déco, ma conserva ruvidità nei caratteri del titolo non affidati al tipografo e incisi dallo stesso Ward. Al centro campeggia la piccola figura di un uomo indeciso tra Natura e Progresso, ma questo lo si comprende bene solo dopo aver “letto” la storia, che mi trovo qui costretto a raccontare; non vorrei però togliere la sorpresa a chi avesse intenzione di reperire il volume, regolatevi di conseguenza. Il libro si apre con una dedica a tre personaggi poco conosciuti che risultano essere uno storico dell’arte, un incisore ed un litografo contemporanei a Ward. Il primo capitolo, intitolato “The Brush”, ci mette al cospetto di un uomo che naviga solitario in balia della burrasca. Quando giunge un’eclissi di sole l’uomo comincia a disegnare placando la tempesta. Approdato sulla riva fertile di una terra sconosciuta si incammina in direzione del centro abitato e prima di giungervi si imbatte in un mendicante zoppo. Evidentemente buono d’animo gli lascia come elemosina l’unica moneta di cui dispone mentre lo skyline della città si staglia ora come un’incombente minaccia. Dopo aver mangiato in una locanda l’artista prova a pagare con i suoi disegni, ma l’oste prima lo deride poi fa per prenderlo a pugni, quando compare un signore distinto, tutto vestito di nero, mantello e cappello a cilindro, col volto probabilmente oscurato da una maschera. Questi resta ammirato dai disegni e salda il conto dell’artista. I due si siedono ad un tavolo e tra loro avviene uno scambio; l’artista firma un documento e consegna al signore l’intera cartella col suo lavoro, l’altro gli consegna un “pennello mistico”. Attraverso una serie di evocazioni gli mostra che quello strumento di origini sovrannaturali è passato di mano in mano ad importanti artisti del passato. E’ appartenuto ad un pittore dell’antico Egitto, poi ad un vasaio greco, successivamente ad un monaco medievale, ad un pittore del Cinquecento tedesco, uno del Rinascimento italiano, ed uno ottocentesco. Questi ultimi tre sono rappresentati con immagini metalinguistiche che dichiarano le fonti di ispirazione di Ward. Il primo è chiaramente Albrecht Durer, con la sua capigliatura sciolta e l’abito di pelliccia come nel celebre autoritratto. Inoltre il paesaggio inquadrato dalla finestra con le case a graticcio non lascia dubbi sulla collocazione geografica della scena. Il secondo fa riferimento all’arte italiana mescolando elementi iconografici che rimandano contemporaneamente a Leonardo, Raffaello e Caravaggio, crea dunque un volto che vorrebbe essere la summa della Storia dell’Arte. L’ultimo ha le fattezze del genio incompreso Vincent Van Gogh, padre ideale di quell’Espressionismo in cui lo stesso Ward si colloca. L’incisore afferma in questo modo che i grandi hanno agito sotto un’influenza divina.

Il secondo capitolo – “The Mistress”- mostra l’ascesa dell’artista, le cui opere, giunte in mano ad un uomo d’affari, salgono vertiginosamente di prezzo, richieste da tutti i borghesi della città. L’artista viene anche introdotto nella società “bene” forse senza rendersi conto che lo si esibisce come un animale allo zoo. I suoi dipinti non sono più ispirati alla natura ma celebrano i maestosi grattaceli cittadini. Quando si innamora di una ragazza questa gli si concede troppo presto, infatti nel terzo capitolo – “The Brand”– l’artista scopre sulla spalla dell’amata il marchio del dollaro, emblema di corruzione. Sbeffeggiato perché ingenuo inizia ad errare per la città notturna, trovando prostituzione ovunque, perfino all’interno delle mura di una cattedrale. Riecheggia nella sua mente la risata di scherno della ragazza e, con le mani che non rispondono più al controllo, cerca di aggredire un poliziotto sfruttatore. Viene malmenato, condotto in tribunale, condannato da un giudice accompagnato pure lui da prostituta e carcerato. Imbavagliando una guardia e rubandole i vestiti riesce ad evadere ma viene riconosciuto dal suo uomo d’affari che chiama gli agenti all’inseguimento. L’artista si lancia in una fuga disperata e giunto sulla cima di un dirupo si getta nel vuoto. Gli inseguitori sono soddisfatti. Il quarto capitolo, “The Wife”, si apre con un’alba. Una donna, passeggia irrorata dalla luce insieme alle capre; trova l’artista svenuto e lo conduce attraversando il bosco fino ad una casetta di montagna. Le cure amorevoli della donna lo risanano e l’artista, ancora per poco attratto dalla città lontana, scopre le meraviglie di una natura incontaminata e la differenza tra il cielo spento della notte metropolitana e quello luminoso e stellato della notte montanara. Tra albe, tramonti e splendori della via lattea i due si amano e presto lei dà alla luce un bambino. L’artista rivolto verso il sole ringrazia pregando un Dio resosi manifesto nella natura. Così l’ultimo capitolo, “The Portrait”, ha un incipit panico, con la famiglia che corre felice, l’artista che ha ritrovato l’ispirazione a dipingere ed il bambino che segue le orme paterne sotto lo sguardo sereno della madre. Dopo immagini così solari un’ombra appare sul prato. E’ giunto il misterioso uomo mascherato col cilindro che, contratto alla mano, mostra all’artista la sua firma in calce. L’artista deve salutare la famiglia ed accompagnare l’uomo del mistero sulla vetta di un monte per eseguire il suo ritratto. Giunti a destinazione l’artista piazza cavalletto e tela, ma quando la figura nera si toglie la maschera l’altro inorridisce, viene colto da malore e precipita nel burrone. Nell’ultima tavola la figura misteriosa riappropriatasi del pennello divino si volta verso lo spettatore rivelando il volto scheletrico della morte.

La storia di Ward è incentrata dunque sul difficile ruolo dell’artista, spesso disposto a qualsiasi cosa pur di conseguire la fama. Quando l’artista resta legato alla natura il suo operato è spontaneo, armonico, riflesso dell’operato di Dio; quando cerca la novità assoluta risulta falso, lontano dalla genuinità primigenia, corrotto come l’intera società che insegue esclusivamente l’idolo del denaro. Ward insiste sulla figura della prostituta come metafora di un’arte votata al commercio, non più all’espressione dei sentimenti. E l’artista per l’immediatezza di successo e denaro è disposto a patti eterni. Con Gods’ man si rielabora il mito di Faust, si rilegge il Ritratto di Dorian Gray ribaltandone i ruoli, si conclude citando la Maschera della morte rossa. Però senza orpelli decadentisti, nella asciutta durezza di un legno segnato con decisione esaltando spigoli, scavando occhiaie, incidendo mani. Le mani di tutti i personaggi sono destinatarie di una cura ed un livello di dettaglio decisamente superiore a qualsiasi altro elemento dell’immagine. Ora, è certo che ogni artista ha le sue preferenze o le sue ossessioni ma l’insistere di Ward credo debba essere ricondotto all’interno di una ricerca simbolica. Le mani sono, più del cervello, l’emblema della creazione artistica, il tramite per conferire forma tangibile ad un pensiero. Non si spiega altrimenti la scelta di concentrarsi su di esse in modo così attento, tanto da conferire loro un aspetto inaspettatamente raffinato quando i volti appartenenti agli stessi personaggi appaiono sgraziati, resi con pochi e gravi solchi. Ward, in sintonia con la sua epoca, racconta con sobrietà, non si concede pause né tantomeno sprechi, se inserisce descrizioni paesaggistiche o espressioni in primo piano è perché questi hanno una forte valenza narrativa.

Più tagliente di Frans Masereel (che dal 1918 disegnava storie senza parole), più sovrannaturale di Otto Nuckel, più dinamico di Rockwell Kent (che un anno dopo la pubblicazione di Gods’ man illustra Moby Dick, lasciandoci altre immagini di oceani spumeggianti), Ward con i suoi neri brilla tra gli incisori degli anni Trenta come una lama d’ossidiana scheggiata in mezzo ad antracite e carboni spenti.

 

Gods’ mana novel in woodcuts by Lynd Ward, Jonathan Cape and Harrison Smith, New York, Novembre 1929, in ottavo, copertina cartonata, pagine con margini irregolari, illustrato con 139 incisioni su legno di formato e dimensioni differenti.

Il libro è stato ristampato – solo per il mercato americano – più volte negli ultimi anni, e recentemente edito in doppio volume più cofanetto contenente cinque storie senza parole, tutte di Ward. Il prezzo è accessibile e questa specie di “opera completa” è facilmente reperibile. Per quanto mi riguarda però, vi assicuro che tenere in mano l’edizione originale, con quell’apparenza da libro maledetto, è un’emozione impagabile…come aver trovato il Necronomicon




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